1.0/ Stone Alone

di / 5 maggio 2011

Maybe then I’ll fade away
And not have to face the facts
(Paint It Black – The Rolling Stones)

 

C’era molta più gente di quanto mi aspettassi. «Saremo pochi, cinque o sei al massimo», mi aveva detto Brian. Aveva organizzato questa serata per cercare di mettere a posto la situazione con Tom Thorogood, un uomo enorme, con quattro capelli in testa e la faccia tonda, detto l’Orso, e con quelli che lavoravano con lui, quelli che gli stavano ristrutturando – facendo finta di ristrutturare –la casa. In un mese non avevano concluso nulla, erano sempre ubriachi e ciò che facevano con più dedizione era prendere per il culo Brian chiamandolo Checca, Fighetta, Puttanella. Un giorno, stanco del loro modo di fare, decise di licenziarli. Non la presero molto bene, soprattutto Thorogood. Brian era impaurito dalla sua presenza, era pieno di paranoie, e così gli venne in mente di invitarlo a casa per una cena – che alla fine diventò un party a tutti gli effetti – chiedendomi di fare la carina con lui. Qualche sguardo, due chiacchiere di circostanza, una strusciatina, nel frattempo – speravo! – l’Orso avrebbe bevuto così tanto da svenire e così non sarei stata costretta a fargli una sega o, peggio, scoparci in uno dei bagni pieni di carrucole e calcinacci. Sarai il mio angelo per sempre, mi aveva detto Brian.
Le miei paure vennero scacciate via subito: Thorogood arrivò completamente ubriaco portandosi appresso una trentina di persone strafatte. L’Orso stava con una puttana brasiliana dai capelli rossi, le toccava il culo, beveva, gridava e ruttava.
Tutti gli altri erano sparpagliati per il giardino. Qualcuno pisciava sul pavimento di marmo che collegava il cancello alla casa, un gruppetto di sei o sette persone si rincorrevano come in un gioco per bambini, altri scopavano dietro i cespugli, certi brindavano a tutti gli oggetti che gli capitavano sott’occhio mentre fumavano charas. Ce n’erano due, in disparte, uno sembrava uno Scimmione, l’altro una Donnola, con la schiena poggiata su uno degli aceri grigi piantati senza criterio nel giardino, che bevevano senza interruzione bicchieri di vodka pessima. Dall’altra parte, accanto alla Pontiac GTO rossa di Brian, Sandy teneva la lingua nella bocca di un tizio che somigliava a una carota. Mick, Keith e Charlie, i suoi vecchi compagni, ancora non si vedevano.
Brian indossava una camicia a righe e un paio di pantaloni rossi. I capelli erano più lunghi rispetto all’ultima volta che lo vidi. Aveva paura, entrava e usciva dalla casa, farfugliava qualcosa alla sua ragazza Anna, si sedeva a terra e guardava con attenzione i movimenti dell’Orso che prima ballava con la sua brasiliana, poi faceva finta di avvicinarsi a lui e tornava indietro ridendo. I suoi occhi lo seguivano senza sosta, come quelli di un gatto alle prese con una pallina rossa.
Tutto ad un tratto, Brian si tolse i vestiti, rimase in mutande, corse verso la piscina e si tuffò. Questa sequenza di azioni compiute a una velocità incredibile, quasi come fosse una macchina, poteva rappresentare in qualche modo l’intimo di Brian, la sua natura tormentata. Era capace di cambiare umore, quindi il modo di fare, di rapportarsi con gli altri e con se stesso, da un momento all’altro. Capitava che durante un abbraccio tenero, all’improvviso, senza alcun motivo, si irrigidisse e si allontanasse. In un quarto d’ora era possibile avere a che fare con tre, quattro, cinque Brian diversi. Chissà contro quanti diavoli ha avuto a che fare in tutta la sa vita. Forse neanche lui lo ha mai saputo.
Sandy corse verso di me portandosi appresso l’Uomo Carota. «Questo è Guly», disse ridendo. Le sue labbra erano piegate all’ingiù, era ubriaca marcia. «Ciao Guly», dissi e ci stringemmo la mano.
«Sandy, perché non stai un po’ con me?», provai a chiederle dopo averla afferrata per un braccio.
«No no no no no», fece una pausa, inspirò un po’ d’aria. «No no no no no». Continuava a ridere come un’idiota. «Adesso farò vedere un gioco di prestigio a Guly, vero Guly?». L’Uomo Carota fece sì con la testa mostrando una dentatura perfetta. «Come vuoi», dissi. Mi fece l’occhiolino. Un istante dopo, i due erano già dentro la casa.
Girai lo sguardo verso Brian: una vasca stile libero, una delfino, un’altra volta stile libero, farfalla. Era un gran nuotatore. Mi accorsi che molte ragazze lasciarono stare quello a cui si stavano dedicando per guardare l’ex chitarrista dei Rolling Stones mentre nuotava. Tre ragazze erano sedute con le gambe incrociate, quattro stavano in piedi e fumavano. In fin dei conti era Brian Jones, una leggenda vivente.
In quel momento, Scimmione diede una pacca sulle spalle alla Donnola e si avvicinò all’Orso, barcollando. Gli indicò la piscina. Orso guardò verso Brian e aggrottò le sopracciglia. Scimmione gli disse qualcosa all’orecchio. Sorrisero. Poi un gesto d’intesa.
Brian continuava a nuotare. Attorno alla piscina si era creato un vero e proprio pubblico. Una ragazza indiana alta più di un metro e novanta e con una coda che non finiva mai si era piazzata di fronte a me, così mi spostai verso quel gruppetto di persone.
Orso e Scimmione si avvicinavano minacciosi verso la piscina. Urlavano e ridevano. Uno tirava un pugno sulla spalla dell’altro e l’altro rispondeva con uno schiaffo. Poi giù altre risate e altri pugni.
«Ehi, brutta checca, ti piace nuotare mentre tutte queste puttane si bagnano per te?». Disse Orso con i piedi sul bordo bianco della piscina.
«Sì brutta checca, ti piace? O preferisci che te lo butto nel culo?». Disse Scimmione battendo il cinque all’Orso.
Come se le nostre voci fossero state risucchiate tutte insieme e gettate nel punto più distante dalla Terra, il silenzio. Le ragazze che stavano in piedi indietreggiarono di qualche passo, quelle sedute si alzarono. «Allora brutto sfigato, vuoi rispondere?», tuonò Orso.
Brian fece finta di nulla ma non si accorse di trovarsi sul lato sbagliato della piscina. La sua testa riemerse a due passi da quei due.
«Vuoi rispondere, frocetto?». La voce di Orso si faceva sempre più scura e cattiva.«Sì, mi piace», disse. La voce gli tremava. Spostò i capelli bagnati all’indietro.
«Lasciatelo stare, stronzi», provò a dire Anna.
«Non rompere i coglioni oppure ti ammazzo», rispose Orso. Anna fece qualche passo indietro, intimorita.
«Allora, sfigato che non sei altro, ci vuoi licenziare? Perché ci vuoi licenziare? Non ti piace il nostro lavoro?». Orso guardava Brian con disprezzo. «Tu lo sai, tu lo sai che noi dobbiamo lavorare, vero?».
«Guarda Tom, esco e ne parliamo con calma, ok?» Disse Brian dopo aver poggiato le mani sul bordo per tirarsi su. Scimmione gli diede un calcio sulla spalla destra facendolo tornare in acqua. «Tu adesso te ne stai buono li dentro, ci siamo intesi?».
Brian riemerse e si girò per raggiungere l’altro lato della piscina. Orso, rapido, si piegò e gli afferrò la gamba destra. Scimmione rise, prese una bottiglia di birra ancora piena che stava per terra e se la scolò tutta.
«Dove pensi di andare, cazzone che non sei altro?», disse Orso con la gamba in mano. Brian provò a tirarlo in acqua, ma non ci riuscì. Era fortissimo.
«Sì, dove pensi di andare, sitariano del cazzo?». Proseguì Scimmione. Orso avvicinò Brian a sé e lo afferrò per i capelli. «Vi prego lasciatemi uscire», urlò di dolore.
«No, tu ora vai giù», e la testa di Brian scomparve. Dopo un po’ riemerse: «Vi prego, lasciatemi stare», gridò. Orso, che lo teneva per il collo, lo ributtò in acqua, questa volta più a lungo.
Intanto, tutti quanti si scambiavano sguardi pieni di paura, esitavano, provavano ad avvicinarsi alla piscina, ma poi ci ripensavano. Nessuno aveva il coraggio di opporsi a quei due, e neanche io.
Brian riemerse per l’ennesima volta. Ora anche Scimmione lo aveva tra le mani. «Vi prego, lasciatemi stare, fatemi uscire». Urlava e si dimenava, sbatteva le mani, cercava di attaccarsi al bordo, apriva e chiudeva gli occhi in continuazione. Scomparve di nuovo. Orso e Scimmione lo tenevano saldamente sotto l’acqua e non gli permettevano in alcun modo di poter tornare a galla. Ridevano e sputavano. «Avete visto cosa succede alle fighette come lui?».
Tirarono su Brian dopo due o tre minuti, era stremato. La testa piegata in avanti, il collo arrossato, il sangue che usciva dal naso. Scimmione si accorse che la situazione stava prendendo una piega pericolosa. «Dai Tom», gli disse cercando di ricomporsi. «Smettiamola, ha avuto quello che si meritava. Andiamo via».
«No, lasciami stare!». Guardò Brian e lo ributtò in acqua. Subito dopo si girò verso Scimmione. «Questo bastardo la deve pagare. Lo odio. Non fa un cazzo dalla mattina alla sera e sta sempre a lamentarsi. Ci tratta come merde. Pensa che siamo delle merde. Non ci saluta. Siamo come delle mosche che vivono nella merda per lui». Sul suo ghigno pieno d’odio balenò un istante di pietà. Qualcosa esplose dentro di lui. Scoppiò a piangere. «Non ha avuto quello che si merita. No, non l’ ha avuto», gridò. Scimmione fece tre passi in dietro, si guardò attorno, e scappò via. Anche noi, dopo poco, scappammo via, lasciando Brian da solo.
Orso, con le mani immerse nell’acqua, piangeva e bestemmiava. La sua faccia era stata fatta a pezzi dalle lacrime. Accanto a lui, nulla. Tirò fuori il corpo di Brian Jones, lo agitò e disse: «Perché mi hai costretto a fare questo, perché?». Lo lasciò scivolare in acqua, per l’ultima volta, si sdraiò a terra, prese il pacchetto di sigarette dalla tasca, ne accese una e provò ad asciugarsi le lacrime. Perché mi hai costretto a fare questo, pensò di nuovo.

Il corpo di Brian Jones venne ritrovato dalla polizia il 3 luglio 1969 sul fondo della piscina nella sua casa a Hartfield, Sussex, Inghilterra. Ancora oggi, a quarant’anni di distanza, non si sa quale sia stata la causa del suo decesso.

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