Il padrone

di / 12 luglio 2011

Il padrone è un romanzo di Goffredo Parise, pubblicato per la prima volta nel 1965.  La vicenda narrata si colloca in pieno boom economico nell’Italia degli anni ’60.

La trama è essenziale: un giovane di vent’anni si trasferisce dalla provincia in una grande metropoli e, assunto in una società commerciale, dovrà iniziare a cavarsela contando solo sulle proprie forze. Nella ditta in cui lavora conosce il suo capo, il dottor Max, e finisce per diventare succube di questa figura meditabonda e malinconica.

Fin dalle prime pagine emerge la contrapposizione provincia/metropoli. La prima rappresenta il passato: i genitori e la fidanzata del protagonista ricordano le sue origini e  fungono da interlocutori ideali cui si rivolge. La seconda, invece, incarna la grande occasione e soprattutto la modernità. Infatti, in un’epoca di forte accelerazione industriale, gli effetti delle tecnologie sono più evidenti proprio nelle grandi città: si pensi a filobus, tram ed elettrodomestici che lasciano il protagonista meravigliato e incuriosito. All’inizio il giovane si sente un estraneo e fatica a entrare nel gruppo precostituito dei colleghi, ma poco a poco diventerà il pupillo del “padrone”.

L’opera sembrerebbe rientrare nel genere del Bildungsroman, dove il protagonista passa attraverso varie prove per arrivare all’età adulta: la vita in una nuova città, il lavoro, i rapporti con i colleghi. In un primo momento infatti  il lettore è incuriosito da questa avventura, successivamente però c’è qualcosa che stride nel comportamento del protagonista. Si assiste in modo inquietante al lento ma inesorabile annullamento della volontà dell’impiegato il quale si riduce a strumento nelle mani del dottor Max, fino alla totale identificazione con lui. Il nome del narratore/protagonista non compare mai nel testo e ciò contribuisce a indebolire l’affermazione di sè, in favore dell’altro, suo alter ego:

«L’identificazione tra me e lui è completa tanto che non posso pensare a me stesso senza pensare a lui. Ho dovuto ammettere, con ripugnanza, che più nulla mi lega a mio padre, a mia madre e alla città dove sono nato».

In poco tempo il passato viene spazzato via e scompare persino dalla memoria stessa del giovane.

L’opera è fortemente teatrale, a tratti entrano in scena personaggi da circo: il pittore Orazio, l’uomo gondoliere; Robo l’uomo simmetrico; Minnie la fidanzata del padrone, che si esprime con i versi di un cartone animato (Ron-ron se ha sonno, S-ciak per un bacio, sbang per un pugno). Altri personaggi sono semplici comparse la cui descrizione, assimilandoli ad animali, li fa sembrare appena usciti da un fantasmagorico bestiario medievale: Lotar il portiere-scimmia è paragonato ad un enorme orango; il dottor Max è ritratto con il colorito di un insetto malato; la segretaria è una farfalla.

Questi personaggi così paradossali e grotteschi rappresentano una grande allegoria del mondo del lavoro meccanizzato con la ripetitività e l’alienazione che ne conseguono inevitabilmente.

Sebbene il protagonista si chiuda, ripiegandosi su se stesso, con un effetto devastante sulla sua vita, il piacere della lettura non viene meno neanche un istante. La scrittura è semplice ma impeccabile con l’uso frequente di onomatopee (il chioccolìo dell’acqua nella fontana)che riecheggiano i componimenti pascoliani.

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