“Pro Patria” di Ascanio Celestini

di / 6 dicembre 2011

 

La cella di Ascanio Celestini ha la forma di un prato verde, due metri per due. L’ora d’aria del pensiero ha però la forma di un discorso a Mazzini. Nel carcere un condannato pone domande senza risposta alle mura e a Mazzini. «Quand’è che l’avete capito che era finita, Mazzini? Quando finisce la rivoluzione?». Per chi può leggere libri, per chi può pensare, nessuna prigione ha mura. È la società che, nel suo immobile mutamento, imprigiona l’uomo e soprattutto lo consuma a ogni sua nuova trasformazione. «Passiamo da una prigione a un’altra prigione e in mezzo non c’è la libertà, ma ore d’aria». La prigione non ha soluzioni di continuità: è un unico grande organismo che si nutre dell’inconsapevolezza del cittadino. Il singolo carcere invece è il luogo dello Stato, perché è lì che lo Stato rivela il suo più palese tentativo di imbrigliare l’uomo. Ed è l’uomo debole a soccombere nelle celle. 40% immigrati, 30% tossici, 50% non ancora giudicati. È appunto un uomo debole che fa sollevare il grido della protesta, di una protesta atavica, che si intreccia con quella di chi ha combattuto per il risorgimento italiano.

Ogni delimitazione sembra sfumare nella narrazione. Il terrorista Celestini cammina al fianco di Goffredo Mameli e degli eroi più o meno noti del risorgimento. I terroristi di oggi potrebbero essere gli eroi di domani, gli eroi di oggi i terroristi della storia. Gli eroi di ieri sono invece per lo più dimenticati: bambini saltati in aria su mine, africani venuti in cerca di fortuna e rigettati nella prigione del mare. A chi spetta dunque il giudizio, se la storia può ingannarci? «Se io ho fame, sono io che giudico lo Stato», sostiene Celestini. «Lo stato giudica per non essere giudicato». È così che la legge, da tutela, diventa arma rivolta contro i deboli. «Io depongo le armi, signor giudice, se lei depone la legge». Non resta che sussurrare un discorso apparentemente folle e senza meta, il discorso del carcerato, l’ultimo discorso davanti all’ultimo pubblico, i giudici, prima della tomba carceraria: l’arringa finale di chi sarà ricordato solo in quanto colpevole. È il discorso sulla controvertigine. La controvertigine non è voglia di lasciarsi andare, non è voglia di arrendersi, ma richiamo ancestrale a porre la propria vita e la propria morte come un marchio infamante sulla storia dei vincitori. Intanto il mondo intorno, la prigione a cielo aperto, va a rotoli, le carceri possono essere vendute, divengono proprietà di chi le occupa. Lo Stato si sfalda, si decompone, l’autorità cede alla dimenticanza, al logorio della polvere che cade su un progetto destinato a spegnersi lentamente. Nel carcere abbandonato echeggiano solo la voce di Celestini e quella di un secondino che ha il potere di denudarsi quanto di vestire sfavillanti uniformi.

Ascanio Celestini tenta di intrecciare la sua vena più narrativa del passato con quella recente, più esplicitamente politica. Il risultato è un connubio della storia ufficiale con tutte le possibili storie di improbabili personaggi vissuti nelle epoche di maggiori cambiamenti. Talora tuttavia l’alternanza di narrazione storica e fantastica si fa meno fluida e in questi tratti il tenore del discorso di Celestini sfiora l’intento didattico e allenta la tensione sul pubblico. Brillano invece le gemme di vite irreali, ma indimenticabili, partorite dalla mente di Celestini, che hanno il merito di rendere la storia viva e palpitante. Il prigioniero è forse ricoperto dal mare di cemento della sua prigione, ma rivive in tutte le incancellabili vite che non ha vissuto e che la fantasia del narratore saprà far sfavillare. Solo ciò che è stato in potenza riesce ormai a dar risalto e memoria a ciò che purtroppo si è ormai compiuto e le cui conseguenze sono oggi visibili.

 

Pro Patria
di Ascanio Celestini
Napoli, Teatro Bellini – 02/12/2011

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