“Il ciclista di Cernobyl” di Javier Sebastián

di / 13 aprile 2012

«Io non ho più nulla da perdere e a Pripjat’ non si sta così male. L’unica cosa è che muori, ma dappertutto si muore».

Pripjat’ si trova a tre chilometri da Černobyl’. Dal lontano 26 aprile 1986, giorno dell’esplosione del reattore 4 della centrale nucleare durante un banale test di sicurezza, è una città fantasma dall’aspetto apocalittico alla Cormac McCarthy. Per le sue strade si aggirano cani randagi «magri, sporchi di fango», alcuni con «le zampe spelacchiate e sanguinanti», e sciacalli. Palazzi abbandonati con le porte sventrate, carcasse di auto incendiate, cabine di autoscontro trasformate in rifugi. E poi c’è il cesio 137 a saturare l’aria. E ci sono i samosjol. Sono gli evacuati di Černobyl’ che, non avendo un posto dove andare, tornano a casa. In fondo sono contenti di poter tornare, anche solo a morire, perché a Pripjat’ «respirare costa molto, dicono che la lingua alla fine diventa nera. E che ti si solleva la pelle e cominci a vomitare. O sputi saliva gialla».

C’è poi un uomo che gira su una bicicletta di ospedale in ospedale a visitare i bambini con addosso due cappotti. Tutti lo chiamano Vasja. È Vasilij Nesterenko, fisico nucleare, direttore dell’Istituto di Energia Nucleare di Minks. È lui il ciclista del titolo del libro dello scrittore spagnolo Javier Sebastián, Il ciclista di Cernobyl, appena uscito per Guanda, con la traduzione di Bruno Arpaia.

All’inizio del romanzo è sempre lui il vecchio malato e mezzo intontito che viene lasciato da una signora tra due sacche di vestiti in un self-service parigino. L’uomo non può non attirare dapprima l’attenzione e la curiosità, poi l’apprensione e lo sconcerto dell’altro protagonista della storia e voce narrante, il rappresentante spagnolo alla Conferenza Internazionale Pesi e Misure tenutasi a Parigi per l’omologazione del Chilo campione negli anni Duemila. Per una serie di circostanze complicate ed equivoci, lo spagnolo si troverà a doversi occupare di Vasja, affidatogli dai servizi sociali francesi. L’uomo è senza documenti e le uniche parole che sa dire sono: «Non lasciare che mi uccidano».

A poco a poco anche noi lettori scopriamo insieme al narratore le vicende di Nesterenko e dei suoi tentativi di dissotterrare le verità sul disastro di Černobyl’ insabbiate dal governo centrale russo: «Secondo lo Stato, le conseguenze di Cernobyl venivano esagerate, anche le evacuazioni erano, secondo loro, un errore». Ben presto infatti Nesterenko si accorse che le autorità russe alteravano i dati sulle radiazioni alzando la soglia di pericolosità per l’uomo e invitando la gente a tornare nelle proprie case, limitandosi anche per i cibi a poche e semplici accortezze (come tenere a bagno per varie ore carne o ortaggi). L’unica fonte di informazione veritiera diventa così il Belrad, l’istituto fondato dallo stesso fisico nucleare. È a questo punto che la vita di Nesterenko è in pericolo. Scampato a due attentati, si rifugia a Pripjat’, città altamente contaminata, dove resistono pochi sopravvissuti attaccati alle proprie radici o ai propri morti, saccheggiatori, una guida che porta “turisti” curiosi a visitare la città per 400 dollari o si fa procurare dai “coloni”, in cambio di viveri non contaminati, animali modificati dalle radiazioni da rivendere al mercato estero e un cantante che ancora si esibisce al cinema-teatro Prometeus, ma che nessuno applaude più.

Invenzione e accurata documentazione di alternano e si confondono (a volte un po’ troppo). Sullo sfondo di una tragedia, di cui ancora oggi sono tangibili le conseguenze nell’alto tasso di incidenza dei tumori e delle malformazioni sugli abitanti delle zone colpite, si delinea la storia di una scelta coraggiosa, quella di non tacere a costo della propria sopravvivenza perché quel che noi crediamo di conoscere è soltanto ciò che le autorità vogliono farci credere.


(Javier Sebastián, Il ciclista di Cernobyl, trad. di Bruno Arpaia, Guanda, 2012, pp.229, euro 17)

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