“La sesta stagione” di Carlo Pedini

di / 23 maggio 2012

«Aspettavamo la primavera ed è arrivata la tempesta». Lo disse Paolo VI, due anni fa, e nessuno capì. Non parlava di allora, stava profetizzando… E ora è arrivata la Quinta Stagione, quella più fredda dell’inverno più freddo, la stagione della tempesta. 
[…] Ora dimmi Piero, la senti anche tu?
Presi anch’io a guardare oltre i vetri appannati della veranda, oltre l’orto, oltre le mura dell’antico palazzo, per sentire l’aria gelida soffiare sempre più forte, per avvertire le nuvole nere farsi ancora più vicine e minacciose per sentire il soffio violento della tempesta che stava arrivando. E per la prima volta, accanto al mio vecchio vescovo che sconsolato guardava con me questa scena invisibile, sentii entrarmi dentro, fin nel midollo più profondo delle mie povere ossa, il turbine gelato della Quinta Stagione».

Ben più terribile e definitiva sarà la Sesta Stagione perché destinata a gettare il mondo in un vuoto di valori senza possibilità di redenzione.
La sesta stagione è il titolo del poderoso romanzo d’esordio, pubblicato dalla casa editrice Cavallo di Ferro e finalista al Premio Strega, di Carlo Pedini (Perugia, 1956), musicista, compositore e direttore d’orchestra. Ambientato a Civita Turrita, paesino immaginario dell’Appennino toscano collocato geograficamente tra Arezzo e Sansepolcro, il romanzo ripercorre, attraverso la storia della piccola comunità, narrata in prima persona da don Piero Menardi, i mutamenti politici, sociali e culturali della società e della Chiesa italiana nell’arco di cinquant’anni. Dalla seconda guerra mondiale, passando per il difficile dopoguerra fatto di lotte di classe e di partito, il Concilio Vaticano II, il ’68 contestatario, fino a quel capitolo nero della storia italiana rappresentato dagli anni di piombo. Mutamenti che propagarono i loro effetti, per certi aspetti in modo ancora più devastante, anche nelle piccole realtà isolate di provincia. Vediamo come una storia millenaria quale quella del cristianesimo viene scossa da un terremoto disgregativo che lascerà solo macerie dietro di sé, come il cancello della chiesa gotica in rovina che campeggia al centro de L’abbazia nel querceto di Caspar David Friedrich, scelta come copertina a suggerire e già introdurre l’atmosfera del libro. Un’immagine che provoca un desiderio di lettura per nulla inibito dalla mole. L’idea di impiegare tanto tempo per leggerlo non deve spaventare. Deve essere accolto come un dono. In fondo leggere è anche trascorrere del tempo con delle creature rese vive da chi alla loro storia si appassiona. E in questo romanzo corale di personaggi ce ne sono molti. Accanto a quelli inventati troviamo anche figure storicamente esistite (il compositore don Lorenzo Perosi, padre Riccardo Lombardi, Pio XII, Giovanni XXIII, il filosofo Aldo Capitini, il critico d’arte Carlo Ragghianti, etc.).
L’impianto è quello del grande romanzo ottocentesco, da I Miserabili di Victor Hugo a Guerra e pace di Tolstoj. Ma il modello dichiarato è I Buddenbrook di Thomas Mann al punto da fare di alcuni personaggi degli alter ego di quelli del grande scrittore tedesco e di riprenderne l’intelaiatura in undici parti divise ciascuna in un numero corrispondente di capitoli (questa corrispondenza viene meno solo nella quinta parte, in cui la materia narrativa straborda in 15 anziché nei 9 capitoli del modello), a volte riprendendo intere scene o citazioni letterali. La forma mentis, del resto, è quella del compositore che nello scrivere musica ha in testa uno schema da seguire che detta i tempi. La sesta stagione musicalmente sarebbe una sinfonia in quanto contiene un mondo perfettamente compiuto. Fu il grande compositore austro-boemo Gustav Mahler (1860-1911) a dire infatti che «una sinfonia deve essere un mondo. Deve contenere tutto». La sinfonia è strutturata in quattro parti dette “movimenti”: il primo è un allegro costruito di norma secondo lo schema della forma-sonata, il secondo un adagio, il terzo un minuetto e il quarto rapido è di nuovo un allegro in forma di sonata o di rondò. E il romanzo di Pedini comincia proprio con un movimento lento per poi finire in un tragico rondò. Questa tecnica compositiva è stata dunque applicata in letteratura.
Se non divulgate in giro che state leggendo due libri di 700 pagine (lo dico se ci tenete alla vostra reputazione di ragazzo degli anni duemila), potreste divertirvi a leggere in parallelo La sesta stagione e I Buddenbrook (io l’ho fatto e giuro che sono sana).
D’altronde, il narratore si chiama Piero Menardi in omaggio a Pierre Menard, il personaggio creato da Borges che si mette a riscrivere, dopo trecento anni, il Don Chisciotte cercando di ripeterlo identico con le stesse parole nella convinzione che esse assumono, se collocate in epoche temporalmente diverse, anche significati diversi.
Attraverso gli occhi di don Piero, che si preserva puro, nonostante gli insulti della Storia, al pari di Tony Buddenbrook la cui ingenuità è costantemente contraddetta dai fatti che le accadono, l’autore ci fa osservare la parabola discendente imboccata dalla Chiesa come esemplarmente dimostra la storia di una piccola diocesi quale quella di Civita Turrita, che va dal momento del suo massimo fulgore quando il vescovo Angelici davanti a una folla festante inaugura il nuovo santuario intitolato alla Madonna di Lourdes per ringraziarla della fine della Grande Guerra e all’indomani dei Patti Lateranensi sullo sfondo della trionfante guerra d’Etiopia, a uno di lenta ma inesorabile disgregazione e scollamento, sempre più evidente dalla diminuzione delle vocazioni e dei partecipanti all’Eucarestia, fra fedeli e vertici ecclesiastici.
Non fanno certo una bella figura i preti in un romanzo che paradossalmente ha per protagonisti tre seminaristi, poi sacerdoti. Particolarismo miope e ambizioni personali di potere, ambivalenza e cinismo formano la miscela fangosa che scorre nelle vene di don Ottavio Pettirossi, giovane rettore del santuario, alter ego di Thomas Buddenbrook, colui che porterà la prestigiosa ditta Johann Buddenbrook alla chiusura e la sua illustre famiglia all’estinzione dopo la morte del suo fragile e sensibile figlio Hanno.
Del tutto fallimentare si rivela anche il sistema educativo della Chiesa se l’altro compagno di seminario di Piero, Oreste Riccoboni, vedrà frustrate le aspettative che aveva riposto nel suo allievo Manlio Terzini, che diventerà poi brigatista negli anni di piombo anziché intraprendere quella carriera musicale che lui avrebbe desiderato per sé, se il destino non gli avesse tolto, con la stessa gratuità con cui glielo aveva donato, il suo talento canoro.
Non c’è la pioggia purificatrice di manzoniana memoria che monda le brutture umane in questo grande affresco dalla scrittura vagamente d’antan che vede una Chiesa più che madre, matrigna propensa non ad accogliere ma a isolare i suoi figli più deboli, per esempio con la decisione di non concedere sepoltura a un morto suicida. Uno degli episodi più toccanti vede proprio il nuovo vescovo, monsignor Rubini, preso dai dubbi: non sa se operare secondo quanto ha appreso ed è costretto a insegnare lui stesso, o secondo ciò che gli detta la coscienza.
Sono i dubbi di una Chiesa che si è vista traumaticamente spodestare da quel ruolo di punto di riferimento che fino ad allora aveva rappresentato e avverte la sua decadenza che tocca uomini e cose.
 

(Carlo Pedini, La sesta stagione, Cavallo di ferro, 2012, pp. 704, euro 19.90)

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