[RomaFilmFest7] Terza giornata

di / 12 novembre 2012

Ci vuole del coraggio ad abbandonare, anche solo episodicamente, un mondo in cui ci si è affermati con prove convincenti per sperimentare un percorso alternativo con un linguaggio nuovo, con i suoi codici fissi e un universo di riferimento con cui è difficile per ogni esordiente confrontarsi. Si corre il rischio di un passo falso anche quando la storia narrata la si conosce bene, anche quando si trasferisce sullo schermo un proprio romanzo assumendosi il compito della regia.

Parliamo dell’Isola dell’angelo caduto, prima prova da regista per lo scrittore Carlo Lucarelli, tratto dal libro omonimo del 2001 dello stesso scrittore, in concorso nella sezione Prospettive Italia. Nel 1924 un commissario di polizia, interpretato da Giampaolo Morelli, già ispettore Coliandro nella versione televisiva dei romanzi di Lucarelli, viene trasferito con la moglie Hana in un’isola sperduta detta dell’Angelo Caduto dove, si narra, sia precipitato Lucifero dopo la ribellione a Dio. Un trasferimento che è una punizione per una non meglio precisata disobbedienza. Dopo un anno di vita sull’isola il commissario trascorre le sue giornate lente tra gli incontri con il confinato dottor Valenza e la pena per la moglie, caduta in uno stato di profonda depressione per la vita sull’isola, venata di un’inquietudine misteriosa e sferzata incessantemente dai venti. Una serie di omicidi arriva a sconvolgere la routine dei giorni, delitti che coinvolgono la milizia fascista capitanata dal bieco Mazzarino di guardia alla prigione dell’isolotto sperduto. Mentre il vento sconvolge gli abitanti, il commissario si trova a indagare tra crimine e esoterismo alla ricerca di una soluzione a quel mistero che a poco a poco si rivela più grande di quello che appare.

La dimensione storica è quella in cui Lucarelli si è sempre mosso al meglio nella sua produzione letteraria, dalla serie del commissario De Luca, ambientata negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, alle indagini sui misteri d’Italia raccolti nel programma televisivo Blunotte. Nel trasporre sul grande schermo il suo romanzo, però, lo scrittore finisce per strafare con una contaminazione di generi, dal giallo classico al noir gotico, passando per il fumetto e l’horror contemporaneo, soprattutto spagnolo, con venature di surreale che anziché inquietanti finiscono per risultare grottesche. La trama si confonde e si appesantisce, come se, in una confusa ricerca di un registro più idoneo al suo racconto, Lucarelli fosse finito per riversare sullo schermo influenze generiche e confuse senza trovare una propria identità. In conferenza stampa il neo-regista ha coraggiosamente riconosciuto i propri limiti, affermando che il film risulta ai suoi occhi esattamente come lo aveva progettato e dichiarando che se non è piaciuto – nessun applauso alla proiezione per la stampa  è solo a causa dei suoi limiti nell’affrontare il nuovo linguaggio cinematografico.

Massimo rispetto per l’onestà intellettuale e per un film che, nonostante le debolezze già evidenziate, riesce comunque nel suo intento di creare tensione e curiosità fino all'affrettato finale.

Positiva invece la proiezione in concorso ufficiale di 1942, kolossal cinese salutato da più parti come un Via col vento orientale. Costato circa 35 milioni di dollari e impreziosito dalla presenza di due star statunitensi del calibro di Adrien Brody e Tim Robbins, il film parte dal romanzo storiografico Remembering 1942 di  Liu Zhengyun.
 


Nella provincia cinese dell’Henan si è consumata negli anni ’40 una delle più grandi carestie della storia contemporanea, con circa tre milioni di persone decedute tra l’estate del ’42 e la primavera del ’43. Amplificato dalla minaccia dell’invasione giapponese, il catastrofico esodo di circa dieci milioni di persone alla ricerca di cibo venne minimizzato dalle autorità cinesi – che a sei mesi dall’inizio della carestia dichiaravano un numero ufficiale di decessi per fame di poco superiore al migliaio -, incapaci di organizzare un efficace sistema di aiuti per la popolazione in fuga.

Il regista Xiaogang Feng ricostruisce l’avvio della drammatica marcia concentrando la narrazione sulla famiglia e i servitori del ricco proprietario terriero Fan, costretto a lasciare la sua casa dopo un’insurrezione dei contadini affamati, e facendo scorrere in parallelo le vicende politiche più alte che riguardano il generalissimo Chang Kai-shek e i membri del suo governo, sospesi tra autorità e terrificata attesa dell’offensiva nipponica.

La gestazione del film non è stata semplice per stessa ammissione del regista: un’indagine su una pagina ancora oscura della storia cinese come la reale portata di quella carestia non è stata ben vista dalle autorità, ma Xiaogang è riuscito a portare avanti il suo progetto rivelando la normalità della prepotenza politica e militare. Quando viene deciso di stanziare del grano per la provincia di Henan, dopo che il giornalista americano Theodore White (Brody) aveva documentato con la sua fotocamera le reali condizioni di quel fiume umano di fame, subentra l’ottusità dei poteri locali a complicare la distribuzione.

Alternando particolare e universale, i drammi dei singoli alle congetture dei potenti, con scene di cruda violenza – su tutte il bombardamento giapponese su affamati e esercito in marcia  il regista rilascia un atto di accusa contro la cecità del potere con una lucida visione della storia e delle debolezze dell’essere umano.

Dalla Francia sono arrivate invece due commedie di grande presa sul pubblico.

Populaire dell’esordiente Régis Roinsard, presentato fuori concorso, si affida a un cast di volti noti, da Romain Durais alla Bérénice Bejo vista in The Artist, per presentare la storia di Rose, giovane  che nella Francia di fine anni cinquanta non riesce a rassegnarsi a un destino di casalinga e si scopre in possesso di un dono unico: battere a macchina più velocemente di chiunque. Incitata dal suo datore di lavoro, che si cala nei panni di un improbabile allenatore, finirà per gareggiare in tutto il paese in gare di dattilografia.

Delude in parte le attese, invece, Main dans la main, l’altra commedia presentata in concorso. Dopo l’ottimo esordio con La guerra è dichiarata, Valérie Donzelli torna con una commedia eccentrica e delicata che parte leggera per appesantirsi gradualmente con l’evoluzione della storia.
 


Joakim (Jérémie Elkaïm) è un vetraio che vive con la famiglia della sorella postina appassionata di danza. Un giorno mentre è a Parigi per un lavoro all’Opera, incontra Hélène (Valérie Lermericer), direttrice dei corsi di ballo dell’accademia. Un bacio improvviso dettato da un impulso incontrollato genera una conseguenza inattesa: i due non riescono più ad allontanarsi l’uno dall’altra, si muovono come imitandosi, come in un ballo a due, seguendosi sempre di pochi passi. Diversi nei modi e nei mondi, i due si trovano costretti in una relazione che finisce ben presto per sconvolgere gli equilibri delle vite precedenti e i rapporti su cui erano soliti fare affidamento (Joakim con la sorella Véro, Hélène con l’amica Constance).

Dopo una prima parte semplicemente esilarante, con una serie di trovate brillanti (il ballo di Véro con il vicino Jean-Pierre, la cena col ministro) l’opera seconda di Donzelli finisce per perdere il brio e la freschezza che la animavano senza più ritrovarli, in un’evoluzione del racconto che predilige aspetti di indagine interiore sulla necessità dell’altro nella vita che deve essere prodotto della scelta e non del caso, arrivando fino ad una svolta drammatica che risulta semplice e superfluo pretesto.

Pur non riuscendo a mantenere le aspettative del sorprendente avvio, la qualità del film si mantiene elevata grazie all’ottimo cast, perfettamente affiatato e a proprio agio anche nelle situazioni più surreali, e alla fotografia di Sébastien Buchmann che rende la dovuta giustizia alle splendide sale dell’Opera di Palais Garnier.

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