“Non gioco più, me ne vado” di Gianni Mura

di / 31 maggio 2013

Gianni Mura è, senza dubbio, il più grande giornalista sportivo in Italia. La definizione, per quanto encomiastica, non può che essere limitativa. Nei suoi articoli c’è molto oltre lo sport, una capacità di raccontare la vita e la storia attraverso partite o tappe in bicicletta, di scolpire eroi quotidiani nel marmo dello spandex e delle scarpette di gomma dura. Non gioco più, me ne vado – come cantava Mina – pubblicato da ilSaggiatore (2013), ne è un’ulteriore, qualora fosse stata necessaria, prova: una raccolta di quanto Mura ha scritto dal 1965 a oggi, da quando, appena ventenne, venne mandato come inviato a seguito del Giro d’Italia per la Gazzetta dello Sport. Da lì in poi è andato avanti per quasi cinquant’anni, e va ancora avanti su La Repubblica, a raccontare l’Italia e il mondo attraverso i protagonisti dello sport, del calcio, del ciclismo.

Capita così di tornare a seguire con la stessa emozione l’avventura italiana negli Stati Uniti del 1994, in quel Mondiale perso dal dischetto per un rigore mandato troppo in alto, di tornare a tifare quella Nazionale che inizia negli articoli di Mura come «la più brutta del 1994», pronta però a riscattarsi con il cuore nel vincere 1-0 contro la Norvegia in dieci e a uscire «a testa alta» con l’argento al collo. È il primo capitolo di Non gioco più, me ne vado, quello intitolato “Il gol non è tutto, o quasi”, quello dedicato alle squadre belle da vedere ma che non riescono a vincere mai, alle formazioni che sanno faticare e difendersi, ai campioni del calcio, a Ronaldo e a Maradona. E ci trova spazio il sinestetico paragone alla Rimbaud tra calciatori, colori e vini, altra enorme passione di Mura, comparso su La Repubblica all’indomani della vittoria contro la Germania al Mondiale del 2006, in cui Buffon diventa fucsia e Totti un Franciacorta rosé, in attesa di vincere la quarta Coppa del Mondo pochi giorni dopo.

Il ciclismo diventa invece «un quadro d’epoca» negli articoli del giovanissimo Mura del periodo 1965-1969, dove già si delineava chiaro il gusto per l’erudizione e la contaminazione culturale, dove per Franco Bitossi si chiama in causa, con Brera, Little Tony (“Cuorematto”, per la tachicardia) e Goldoni, e si torna a leggere di Merckx, di Gimondi e quella «piccola storia» di quando nel ’69, in pieno Giro d’Italia, la maglia rosa passò per la sua natale Sedrina, vicino Bergamo, e in strada non c’era nessuno a salutarlo, solo poche persone e in generale il silenzio.

E poi ancora calcio, alto e basso, con il Casale che è «come la Juve» nelle parole di un giovane tifoso, quando nell’86 ha «girato» a 26 punti il girone di andata, come la squadra degli Agnelli, loro in Serie A, però, il Casale in Interregionale, e poi altre biciclette, quelle forse più famose di tutte, di Coppi e Bartali, ricordando nel 2000 Gino scomparso e i suoi duelli e la sua amicizia con Fausto, di Pantani e delle sue ali che si aprono nei trionfi e si chiudono mentre precipita.

Non bisogna amare il calcio o il ciclismo per apprezzare Non gioco più, me ne vado. Non è necessario neanche amare lo sport. Dalle pagine di Gianni Mura trasuda storia, il senso vero dell’evento sportivo come momento e fotografia sociale, come immagine generale del Paese che si specchia in se stesso osservando lo sforzo di campioni più o meno grandi, riconoscendosi nelle fatiche più misere, nelle battaglie più improbabili, affidando speranze di riscatto e sogni di gioia all’attesa di un risultato, di un verdetto. Non serve neanche aver vissuto le epoche che si attraversano, o conoscerle. Bastano poche parole, poche righe, e l’Italia del Boom si costruisce sulla pagina, un riferimento appena accennato ed è il 1994 mentre Berlusconi scende in campo.

«La vita è un letto sfatto», continuava la canzone di Mina. Mura prende quel che trova e lascia quel che prende, dietro di sé, e fortunatamente non se ne va, ma continua a giocare.


(Gianni Mura, Non gioco più, me ne vado, ilSaggiatore, 2013, pp. 504, euro 17)

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