“Città aperta” di Teju Cole

di / 10 gennaio 2014

Personalmente non ho mai amato i paragoni. Sarà per un retaggio scolastico o magari perché il paragonato finisce il più delle volte per deludere le aspettative. Così quando ho letto la quarta di copertina di Città aperta (Einaudi, 2013) di Teju Cole, in cui si dice che la prosa di questo autore «ricorda quella di W.G. Sebald e J.M. Coetzee», ho avuto la tentazione forte di rimettere il libro al suo posto. E se non fosse stato per la curiosità che ho per gli incipit di sicuro lo avrei abbandonato.

«E così quando lo scorso autunno avevo cominciato a fare le mie passeggiate serali, mi ero reso conto che Morningside Heights è un buon punto di partenza per esplorare la città. […] Poco prima che iniziassero quei vagabondaggi, avevo preso l’abitudine di osservare il passaggio degli uccelli migratori da casa mia, e ora mi chiedo se ci fosse un nesso».

Per fortuna invece l’incipit funziona eccome. La prima pagina, inoltre, offre subito una serie di esempi di quello che sarà l’andamento della narrazione: attraverso l’utilizzo di forme verbali come «mi ero reso conto», «mi chiedo», «immaginavo» e «contemplavo», Cole introduce immediatamente il lettore nel flusso pulsante delle riflessioni e delle divagazioni del protagonista Julius, un giovane di madre tedesca e padre nigeriano emigrato negli Stati Uniti, alter ego dello scrittore. Queste riflessioni e divagazioni, a volte semplici a volte molto complesse, ma sempre scaturite da impulsi quotidiani fortuiti che diventano detonatori mentali, sono favorite dalla particolare curiosità del narratore che, camminando per le strade di New York – ma anche di Bruxelles, in cerca della nonna materna –, si lascia trafiggere da incontri e visioni metropolitane. Ogni cosa può essere uno spunto, ogni dialogo improvvisato può generare una serie inanellata di pensieri. Così, per esempio, l’incontro con Farouq, un giovane del Marocco che lavora in un internet café di Bruxelles, porta a una discussione sulla Palestina e sull’eccessiva fedeltà alla propria sofferenza e al martirio; o le visite che Julius fa a un suo vecchio insegnante ormai ridotto in fin di vita, fanno sì che il protagonista comprenda l’importanza della dignità nell’atto del morire, arrivando quasi a giustificare il suicidio in tarda età.

Città aperta non è una guida alternativa di New York come qualcuno l’ha definita, con troppa superficialità. La metropoli non è altro che il punto di partenza reale da cui Julius/Cole inizia il suo percorso mentale. Il narratore non descrive la città, ma trae da essa gli spunti per parlare d’altro. E a tal proposito uno dei temi centrali del libro riguarda la questione identitaria e il fallimento dei concetti americani di melting pot e di cultural mosaic. La riflessione di Juliu/Cole si incentra sul terribile distacco che persiste tra l’Occidente, bianco e culturalmente predominante, e le etnie che a esso si affacciano speranzose o che da esso sono state prima ingurgitate e poi emarginate. Una riflessione che può sembrare a tratti vittimistica e fine a se stessa – l’episodio in cui l’autore va a teatro e si rammarica d’essere l’unico nero in sala ne è l’esempio estremo – ma che rivela in realtà il fallimento di una certa mentalità occidentale fintamente progressista, incapace di comprendere alla radice le esigenze di una società in evoluzione. Julius stesso sembra essere contagiato da questa mentalità: infatti non le si ribella, si limita a subirla consapevolmente, diventandone quasi complice. E per questo infastidisce, al punto da rimanere quasi un estraneo per il lettore che giunge al termine della narrazione, nonostante la profondità di alcune sue riflessioni.

Per tornare alla quarta su citata, Città aperta di Teju Cole è sicuramente «uno dei migliori libri dell’anno» – anche se Sebald e Coetzee rimangono dei modelli non raggiunti più che eguagliati –, ma lo è per la fluidità della sua prosa, per la bellezza di alcuni ragionamenti nati dal nulla – meraviglioso il racconto conclusivo in cui torna il riferimento agli uccelli migratori –, per quel senso di vaghezza ivi epresso che solo il passeggiatore solitario sa cogliere e quindi raccontare. Un buon esordio dunque, che non ha bisogno di scomodi paragoni.


(Teju Cole, Città aperta, trad. di Gioia Guerzoni, Einaudi, 2013, pp. 271, euro 17,50)

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