“Di carne e di nulla” di David Foster Wallace

di / 15 gennaio 2014

In un saggio del 2011 su David Foster Wallace, J.J. Sullivan scriveva: «Ecco una cosa difficile da immaginare: essere uno scrittore così creativo che, quando muori, il linguaggio ne rimane impoverito. Questo è ciò che ha compiuto il suicidio di Wallace, due anni e mezzo fa».

Sul perché la prosa dolorosa e caustica di David Foster Wallace riscuota successo di pubblico e non solo di critica, il dibattito è aperto. Ma è un dato di fatto che la schiera dei suoi lettori si irrobustisca di anno in anno, trasformando questo vuoto letterario in un’opportunità editoriale.

Dalle lettere ai greateast hits, gli scaffali delle librerie si riempiono di volumi che assicurano al lettore il proseguimento di un legame arbitrariamente spezzato.

Di carne e di nulla(Einaudi, 2013) si inserisce così nel filone delle opere postume in cui David Foster Wallace è autore di contenuti, mentre la forma, il senso stesso della raccolta è affidata a un lavoro editoriale privo però di feedback. Eppure Wallace era ossessionato dal timore dell’incomprensione, tanto da allegare ai manoscritti le norme redazionali per i correttori di bozze, un’ingerenza autoriale che aveva come fine il riscontro.

Le pubblicazione post mortem, di David Foster Wallace solo per metà, hanno l’effettivo merito di far circolare il suo materiale. Tuttavia questi testi, che consolano e rassicurano il lettore, scaturiscono da un impianto ideologico che pone dei dubbi sull’effettiva esistenza di una linea di demarcazione tra il valore letterario, le argomentazioni accademiche e il funzionamento del marchio registrato.

L’inquietudine intellettuale rischia così di cedere facilmente il passo al fascino del personaggio suicida, tormentato in vita dai pungoli di una mente difettosa, alimentando prima di tutto un rischio culturale: al di là degli ingranaggi commerciali, il danno del consumo feticistico sta nel permettere l’approdo disinvolto  alle letture postmoderne senza curarsi della «testardaggine filosofica» che permea e intrica le pratiche di scrittura di David Foster Wallace. Allora più delle introduzioni patinate e degli strilli, avrebbe senso, forse, un’edizione ragionata, correlata da apparati critici.  

Di carne e di nullaè un libro difficile perché gli interventi di Wallace sono agganciati alla realtà del tempo, dunque non è facile seguirne i riferimenti. Il tentativo editoriale è di annientare la morte puntando sulla capacità della letteratura di eternizzare le voci, ma il risultato è la pubblicazione di contenuti lasciati risuonare datati perché scollati e introdotti senza prospettiva storica: c’è la riflessione sull’AIDS sostenuta dall’urgenza di quegli anni, il saggio su Terminator, un’analisi sulla tendenza letteraria dei primi anni Duemila (i cui autori erano definiti Vistosamente Giovani), una recensione sul Prose Poem del 2001, un’intervista del 1996 su Infinite Jest, una conversazione telefonica con Gus Van Sant (la cui struttura somiglia in modo sconcertante a un’intercettazione) eccetera.

Sfugge quale sia il principio unificatore della raccolta e quali criteri ispirino la selezione dei brani. E se da un lato queste carenze accelerano il metabolismo del lettore, dall’altro denunciano l’impossibilità di sopperire a un’assenza autoriale. Nell’economia di David Foster Wallace, l’architettura, l’inclusione e la composizione del testo sono studiate per diventare parte imprescindibile della sua opera che volutamente ci complica la lettura perché l’ostacolo è il suo più grande atto di generosità.

 

(David Foster Wallace, Di carne e di nulla, trad. di Giovanna Granato, Einaudi, 2013, pp. 256, euro 18)

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