“Smetto quando voglio” di Sydney Sibilia

di / 5 febbraio 2014

Prendi I soliti ignoti, dai loro una laurea in una materia scientifica o umanistica che non garantisce uno sbocco nel mondo del lavoro, ispirati a Breaking Bad e a tutto il cinema di Guy Ritchie, dimentica il concetto che a delitto corrisponde castigo, di qualsiasi forma, e ottieni Smetto quando voglio, opera prima di Sydney Sibilia che parla d’Italia cercando di fare cinema all’americana.

Pietro ha 37 anni e un posto come ricercatore di neurobiologia appresso a un professore incompetente e ignorante immerso nel mondo universitario per agganci politici molto più che per meriti. Non basta fare tutto per lui per ottenere l’agognato contratto a tempo indeterminato, perché quando finalmente esce la graduatoria per il posto fisso, Pietro si trova ancora una volta superato da qualcuno con meno meriti ma più conoscenze e deve dire addio al suo assegno di ricerca e al suo lavoro. Come fare per mantenere se stesso e la donna con cui vive da sette anni diventa un problema serio. Per risolverlo l’ispirazione arriva da un debosciato mantenuto a cui Pietro dà lezioni di recupero il pomeriggio: sfruttare la conoscenza scientifica accumulata sui libri per sintetizzare una nuova droga, legale perché basata su una molecola non ancora registrata dal ministero della salute, e impadronirsi del mercato degli stupefacenti. Con una banda formata da altri fuoriusciti accademici disperati, dall’antropologo al chimico, Pietro irrompe nel mondo delle smart drugs alla ricerca di quella dignità e quella sicurezza che il sistema non è in grado di dargli.

Il lavoro nobilita l’uomo, si dice. L’assenza di lavoro, soprattutto quando si è titolati e costretti ad accontentarsi di tutt’altro per vivere, degrada, mortifica, umilia. È degradante alla soglia dei quarant’anni, con lauree e dottorati conseguiti, non poter pianificare il futuro. È mortificante dover lavorare in nero in pompe di benzina o come lavapiatti per degli extracomunitari. È umiliante dover mentire sui propri titoli per elemosinare un posto allo sfascio. Se la società non è in grado di offrire quello che spetta a chi ne ha diritto allora è giusto trovare un modo di aggirare la legge, senza preoccuparsi delle conseguenze sugli altri.

Questo in sintesi il messaggio di Smetto quando voglio. Si può discutere sulla moralità dell’azione di riscossa, ed è lecito farlo. Perché Pietro e la banda dei ricercatori restano impuniti e vittime anche quando mettono su un piccolo impero della pasticca e diventano criminali. Perdono un po’ il controllo, tra tatuaggi e prostitute, questo sì, ma restano buoni e onesti, comunque autorizzati allo sbando per aver sofferto ingiustamente per tanto tempo. È un concetto difficile da accettare che marchia il limite del primo tentativo di Sibilia, anche sceneggiatore con Andrea Garello e Valerio Attanasio. Cercando di fare il cinema criminale di Guy Ritchie, dove i protagonisti sono delinquenti totali, o a sintetizzare, termine lecito, in meno di due ore cinque stagioni di evoluzioni psicologiche dello spacciatore per necessità Walter White di Breaking Bad, Smetto quando voglio tralascia, accelera e semplifica l’originale spunto di partenza senza trovare la direzione conclusiva verso cui definirsi, bruciandosi in un finale irrisolto, che non è commedia nera, che non è denuncia sociale, che non è condanna morale.

Rimane la critica al mondo del lavoro ormai paralizzato, al sistema universitario incapace di garantire il merito, la scelta coraggiosa e riuscita di girare più in stile Hollywood che Cinecittà (macchine leggere, montaggio veloce, fotografia satura) senza perdere l’identità nazionale e un cast che deve molto alla traccia di Boris che porta in sé e funziona in tutti i ruoli maschili, meno nella eccessivamente rigida Solarino, con Edoardo Leo che a tratti invade troppo e Libero De Rienzo che, sarà pure per il nome condiviso, replica il pigro cinismo del Bart di Santa Maradona. Cameo un po’ paraculo dei gruppo di The Pills.

(Smetto quando voglio, di Sydney Sibilia, 2014, commedia, 100’)

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