“La rivelazione greca” di Simone Weil

di / 11 marzo 2014

Sono articoli, saggi, spesso meri appunti sul senso stesso della grecità quelli raccolti ne La rivelazione greca di Simone Weil (Adelphi, 2014). Capita in questi scritti, composti tra il 1936 e il 1943, che a volte la semplicità coincida con la profondità (non casualmente alcuni testi erano stati concepiti per avvicinare «le masse popolari alla poesia greca» – lei, la Weil, il mondo operaio volle conoscerlo dal di dentro facendosi assumere nelle fabbriche della Renault). La letteratura tragica (Sofocle, perlopiù) e l’epos omericoin Weil vengono ricondotti alle loro ragioni originarie: il bene, il male, la forza, il destino, il dolore, le domande essenziali sul senso e il loro rinvio inevitabile a un piano metafisico. La filosofa non cerca chiavi filologiche. Nietzsche, che invece come filologo iniziò la sua attività intellettuale (ma l’abbandonò presto), non fu forse meno tendenzioso. Con la Weil disegna una diade ossimorica come altre mai. A entrambi non fa difetto la temerarietà e in ambedue i casi siamo di fronte a pensieri così radicali che l’idea di chiuderli poi in una cifra conclusiva sembra maldestra – la Grecia è un punto di partenza che li proietta molto lontano ma lascia trasparire paradossali e interessanti collusioni. In quanto investono il corpo, tutt’e due risultano filosofie poco addomesticabili. Se Nietzsche desume dallo spirito dionisiaco una «grande ragione» del corpo, e vi si esalta, la Weil nelle concrete esistenze delle sventurate Elettra o Antigone, nei massacri omerici legge l’imperio di una forza che si abbatte su di essi e li sottopone a prove terribili (nessuno intende sfuggirvi, il coraggio certo non gli manca, nemmeno a Simone, che decide di provare su di sé la violenza del lavoro basato sul dominio capitalistico).

L’Iliade è per lei l’opera prima in tutti i sensi (quanto all’Odissea il giudizio è ingeneroso, considerato com’è alla stregua di una riuscita imitazione). La definizione che la Weil ne dà come «poema della forza», Nietzsche forse l’avrebbe sottoscritta – ma con tutt’altro significato. La filosofa vi sottende una condizione umana che nella prostrazione e nello sguardo abissale su di essa si apre perciò alla grazia e alla trascendenza. La scommessa della Weil consiste insomma nel cercare nella Grecia i segni originari del Cristianesimo. La forza incombe, ma nessuno ne è entusiasta, come se anche i forti la subissero. Ché la forza riduce l’uomo a cosa: non vi è nulla di esaltante in essa. In Omero è solo una scure che si abbatte sugli uomini anche quando ne sembrerebbero i più esagitati interpreti. Tutti alla fine vi soccombono. Laddove Nietzsche vedrebbe il migliore tipo umano della storia, la Weil scruta una trama di afflizioni aperte verso la trascendenza in un percorso che attraversa metafisica e mistica – un’idea di Grecia che parte da Omero, attraversa gli orfici, i tragici, Platone e arriva ai Vangeli. Ora, un Platone religioso non sarebbe una novità e nemmeno Nietzsche avrebbe a che ridire: la radicale divergenza qui verterebbe sul giudizio di “valore” per i destini umani. Ma il Platone letto dalla Weil è qualcosa di più: costituirebbe l’apice del pensiero greco in una soluzione mistico-esoterica contrapposta così nettamente al razionalismo e all’intellettualismo aristotelico e dunque alla conoscenza scientifica da espellere quest’ultima dallo «spirito di verità» che le stava tanto a cuore. Intento temerario di sicuro, oggi più che mai.

(Simone Weil, La rivelazione greca, trad. e cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Adelphi, 2014, pp. 489, euro 28)

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