“I detective selvaggi” di Roberto Bolaño

di / 30 settembre 2014

È il 1998 quando Roberto Bolaño pubblica per la prima volta in Spagna I detective selvaggi – riproposto in Italia da Adelphi, lo scorso aprile, nella nuova traduzione di Ilide Carmignani. Ha quarantacinque anni e da sei è a conoscenza della grave malattia epatica che lo porterà alla morte, nel 2003. Con questo romanzo, di oltre seicento pagine, lo scrittore cileno si aggiudica il Premio Herralde e il premio internazionale Rómulo Gallegos, ottenendo finalmente la fama di cui è degno. Come narratore, certo, benché lui si ritenga prima di tutto un poeta.

Approda infatti alla narrativa per necessità Roberto Bolaño: alla nascita del primogenito Lautaro inizia a partecipare a concorsi di narrativa con premi in denaro. Così, dopo La letteratura nazista in AmericaStella distante e Chiamate telefoniche, ecco che dà vita al «nuovo Gioco del mondo», «il tipo di romanzo che Borges avrebbe accettato di scrivere», I detective selvaggi, appunto. Ma il legame con la poesia rimane alla base della sua scrittura, al punto da incentrare la storia dei Detective sulla ricerca ossessiva della misteriosa poetessa Cesárea Tinajero (personificazione della poesia stessa?) da parte di un gruppo di giovani intellettuali, i realviscerali, anch’essi poeti.

E non è raro cogliere in alcuni suoi versi celebri – sembra assurdo ma l’opera poetica di Bolaño è ancora inedita in Italia – certi elementi cardine del suo capolavoro: «Gli autentici poeti tenerissimi / che si cacciavano sempre nei cataclismi più atroci, / più meravigliosi, / che gliene importasse / se bruciavano la loro ispirazione / bensì donandola / regalandola / come chi tira pietre e fiori. / Senti, poeta, gli dicono, / infila la presa dell’alba»; o ancora «Una cosa inevitabile, / innamorarsi 100 volte della stessa ragazza»; e infine «La certezza di una morte svelta e precoce». L’esuberanza giovanile, il senso di rivolta impunita che caratterizza lo stesso Bolaño, Mario Santiago e il gruppo degli infrarealisti che irrompono alle cerimonie letterarie creando imbarazzo e a cui sono ispirati Arturo Belano, Ulises Lima e i loro compagni realviscerali; il sentimento amoroso che in parte guida e unisce i giovani intellettuali sbandati su bus notturni per le strade di Città del Messico o su Ford Impala bianche disperse nel deserto del Sonora; la consapevolezza di dover soccombere prima degli altri, perché, come sosteneva il greco Menandro: «Muore giovane chi è caro agli dei» – oltre Bolaño, anche l’amico Mario Santiago morirà precocemente, il 10 gennaio del 1998, investito da un’auto. Tutto questo è I detective selvaggi, ma non solo questo.

I detective selvaggi è un libro-mondo: la struttura, divisa in tre macro-sezioni e ulteriormente frammentata in più di novanta micro-narrazioni, è costruita sulle testimonianze di oltre cinquanta narratori o testimoni che raccontano del loro rapporto con i due personaggi principali, Arturo Belano e Ulises Lima, durante l’arco temporale di ventuno anni – dal novembre 1975 al dicembre 1996. L’assenza e la ricerca a cui questa conduce sono i motori della storia: la scomparsa della poetessa Cesárea Tinajero prima, e dei due giovani protagonisti poi, innesca un gioco di rimandi infinito che filtra la realtà rendendola pulviscolo inafferrabile. Bolaño depista il lettore, lo conduce per sentieri ciechi, ammaliandolo, lungo il cammino, a volte persino istruendolo – come quando ci racconta, senza nessun preavviso, dell’errore di traduzione della parabola «così famosa di Gesù Cristo, quella dei ricchi, del cammello e della cruna dell’ago».

È anche il libro dei libri di Bolaño, perché sono numerosi i passi che lo scrittore riprenderà nelle sue opere successive – tre esempi su tutti: la storia di Auxilio Lacouture che sarà protagonista di Amuleto; il passaggio tipicamente “realviscerale” in cui distingue «nell’immenso oceano della poesia […] varie correnti: frocioni, froci, frocetti, checche, culi, finocchi, efebi e narcisi» che costituirà l’incipit di I dispiaceri del vero poliziotto; la testimonianza del fotografo di guerra Jacobo Urenda che ricorda da vicino l’ambientazione del racconto “Fotografie” incluso nella raccolta Puttane assassine. Per non parlare del misterioso riferimento temporale di Cesárea Tinajero nelle pagine finali del libro, rimando nemmeno troppo velato a 2666, altro capolavoro dello scrittore cileno: «Ma Cesárea parlò dei tempi che stavano arrivando e la maestra, per cambiare argomento, le domandò quali tempi e quando sarebbero arrivati. E Cesárea indicò una data: verso il 2600. Duemilaseicento e rotti».

Ma soprattutto I detective selvaggi è il libro della vita di Roberto Bolaño e di un’intera generazione di giovani latinoamericani, dispersi e disperati, ma pur sempre vivi. Così il romanzo diventa il deposito esistenziale della personale «stagione all’inferno» di ognuno di loro. Un romanzo che è carne viva, pulsante, come solo i grandi capolavori irregolari sanno essere.

(Roberto Bolaño, I detective selvaggi, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2014, pp. 688, euro 25)

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