“Le vite di Monsù Desiderio”
di Fausta Garavini

di / 7 ottobre 2014

Al centro di Le vite di Monsù Desiderio di Fausta Garavini (Bompiani, 2014), c’è la curiosa figura di François de Nomé, pittore lorenese vissuto fra Roma e Napoli nei primi due decenni del Seicento: divergendo decisamente dalla linea di corposo, perfino dirompente realismo imposto alla pittura dal Caravaggio tra fine Cinquecento e inizi del Seicento, si dedicò invece a tracciare, con pennellate rapide, nervose, quasi impressionistiche, vedute d’architettura dichiaratamente irrealistiche; la figura umana, che il Caravaggio aveva spavaldamente portato a invadere il primo piano del quadro (la sensualità impudica del ragazzino-Amore, o i piedi infangati dei devoti in ginocchio avanti a Maria), qui si fa invece profilo esilissimo, minuscolo, sperso in un proliferare di arcate in prospettiva, e pilastri e guglie e pinnacoli: architettura dunque di totale fantasia, che fonde gli elementi costitutivi dell’antico e del gotico, di Roma, solenne di pietre in rovina, di una Napoli elegantemente angioina, e (forse) della ormai remota Lorena della sua infanzia.

È da lì, dal luogo e dal nodo di affetti da cui si distacca il bambino di nove anni scarsi in viaggio verso Roma, che prende le mosse la ricostruzione intrapresa da Fausta Garavini a partire da pochi evanescenti dati storicamente oggettivabili: fatta con le armi di una sensibilità sottilissima, aderente alla sostanza più umbratile dell’esperienza umana, ma anche dotata di una straordinaria capacità di ricostruzione assolutamente persuasiva – dal più minuto particolare della tecnica pittorica, fino al quadro d’ambiente più vasto e affollato, consentito da due città come la Roma e la Napoli del ‘600, fra le più brulicanti di vita, e di fermenti artistici, dell’intera Europa.

Questo infatti è uno dei pregi più accattivanti del libro: mostra in azione, in presa diretta si direbbe, l’esistenza chiassosa, sguaiata, vitalissima, dei romani d’inizio ‘600, soprattutto nei luoghi della loro socialità (le carnevalate, la corsa degli ebrei nudi, la giostra dei tori), i luoghi che a noi sono invece familiari nel modo in cui li hanno ingessati e marmorizzatati le successive sistemazioni urbanistiche settecentesche, o di epoca post-unitaria.

A un secondo livello, più meditato, arricchisce poi il libro la ricostruzione, che Garavini sembra compiere senza sforzo, quasi ricorrendo a memorie personali, dell’atmosfera culturale di due centri nevralgici come Roma, e più ancora Napoli, nei decenni iniziali del ‘600. Ciò, per mezzo di figure sempre in bilico fra dogma e dubbio, fra magia e raziocinio: quali, per dirne una, il Della Porta, strana mistura di umanista e scienziato, nel suo approdare alla fisica del cannocchiale già prima di Galilei, o a un pre-darwinistco spirito di osservazione delle simmetrie strutturali fra esseri viventi; o, ancora, il Campanella (che farà anche una rapidissima comparsa, affacciandosi con il rude volto contadinesco da una finestra a inferriate del suo carcere napoletano), visto meno come il riformatore politico che a noi viene subito in mente, quanto come un quasi mistico adepto della insondata sacralità della natura.

Ricostruzione, si è detto; ma va subito precisato che non consiste mai in un procedimento freddo, da archivista, piuttosto è tutta giocata all’interno delle perplessità e del metafisico attardarsi del ragazzo e poi del giovane uomo Francesco sul limitare di un possibile senso, di questo nostro trascinarci verso la distruzione e l’annullamento beffardo nella morte.

Morte che, prima ancora di comparire nei suoi quadri, qua come crollo di colonne e sfacelo di cupole, là attraverso l’inquietante, spesso incongrua figura del toro trascinato al sacrificio, si annuncia già al bambino di Metz, nel corpo degli impiccati lasciati alla mercé degli uccelli e delle piogge, e poi torna, insistente, in quasi tutti gli snodi narrativi della sua pur breve esistenza: da quando gli uccidono il padre in una rissa di strada, a quando il suocero e maestro d’arte pittorica Croys cede allo sfacelo fisico della malattia, e perfino nel formarsi dell’unico, quasi preterintenzionale frutto del suo amore per la dolce, positiva Isabella («ha il dono di schiarire i pensieri neri che Francesco cuoce in sé»), che, nel darlo alla luce morto, ne verrà a sua volta avviata al suo stesso nulla.

A noi sembra, tuttavia, che a portare il libro forse ancora più in alto che sul piano narrativo, a un tono di elevatissima qualità nella lavorazione, si vorrebbe dire, da oreficeria, sia lo stile: brevi, asciutte, vibrate, o, se serve, fluenti al modo di panneggi, le frasi sono rifinite ognuna come i versi di una composizione poetica, il lessico è trascelto con gusto attentissimo, pregiato in alcune sue punte, anche se pronto a mimetizzarsi al parlato (che però, stranamente, non viene distinto, come una convenzione plurisecolare ci abitua, tipograficamente dal testo narrativo: forse, perché ne sia parte più intima); detto francamente: lo stile di questa vita d’artista riporta alla mente il sovrano magistero di grandi novecenteschi come Longhi, o la Banti di Artemisia.

Due parole, infine, sull’aspetto iconografico: ottima scelta, quella di incorniciare nel testo via via tutte le opere del de Nomé, come poi quelle dei suoi maestri, o rivali, e colleghi: tale quel Monsù Desiderio, Didier Barra, che, furbescamente, alla fine del libro si affretta a sostiuirsi al collega appena morto ereditandone le pingui committenze, e perfino la fama, fino ai nostri giorni di meritori studi filologici in grado ridare, a questo bizzarro lorenese venuto a fiorire in Italia, quello che gli spetta.

(Fausta Garavini, Le vite di Monsù Desiderio, Bompiani, 2014, pp. 324, euro 22)

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