“Joe” di David Gordon Green

di / 10 ottobre 2014

Violenza, alcol e redenzione sono i tre cardini su cui gira Joe, film di David Gordon Green visto nel 2013 in concorso a Venezia e a Toronto e che ora viene distribuito nelle sale italiane con più di un anno di ritardo.

Figlio di un alcolizzato violento, il quindicenne Gary Jones cerca di prendersi cura della madre e della sorella muta Dorothy e di costruire una vita migliore rispetto alle baracche cadenti, il cibo preso dalla spazzatura e al nomadismo a cui il padre li costringe. Dopo essersi dovuti trasferire per l’ennesimo problema del padre, i Jones arrivano in una cittadina del Texas dove Gary trova lavoro con Joe Ransom e la sua squadra di disboscatori incaricati di avvelenare vecchi pini, deboli e inutili, per piantarne di nuovi. Joe è un uomo silenzioso e solitario, beve molto, frequenta un bordello e ha passato due anni in carcere per aver menato tre poliziotti. Lì in paese lo conoscono tutti, e lo rispettano, tranne un rivale storico con cui si azzuffa nei bar e fa emergere la sua natura violenta in un’escalation costante di provocazione e risentimento. Tra Joe e Gary si sviluppa un rapporto inatteso di solidarietà e amicizia che porta i due a crescere insieme, Gary sempre più uomo, Joe alla ricerca di una dignità che possa riscattarlo.

Sono gli Stati Uniti più putridi quelli che racconta David Gordon Green in Joe. Quelli delle statali e del nulla, dell’alcolismo ovunque e delle armi sempre in pugno. È una realtà rurale e primitiva, lontana da una civiltà che sia intesa come urbana o come condizione umana. È una sorta di medioevo barbarico, quello del Texas di Green, con l’autorità che deve essere sempre pronta al compromesso con la violenza e lo sbando, in cui la vita di un uomo ha un valore diverso rispetto al senso comune, in cui è possibile uccidere per rubare del vino, spararsi in pieno giorno per strada, lasciare i cani a sbranarsi per godere dei servizi di una prostituta. Come gli alberi che avvelenano, i personaggi di Joe si lasciano morire dell’infezione che si procurano, lasciano imputridire la piaga sociale in cui annegano. Non è prevista una fuga, non ci pensano. Il mondo è quell’orizzonte ristretto di drug store e pick up, di bottiglie di bourbon e lattine di birra. C’è la morte del sogno americano illuso da se stesso, c’è la decadenza delle terre desolate, c’è l’orrore delle possibilità dell’uomo esposto al pericolo più grande che possa incontrare: se stesso. Ma c’è anche la possibilità di un riscatto, di una rivalutazione del senso comune dell’umanità, della riscoperta, o definitiva affermazione, di una nobiltà dimenticata.

Basandosi sul romanzo di Larry Brown del 1991, e servendosi della sceneggiatura di Gary Hawkins, quasi esordiente dopo documentari e corti, Green racconta l’incontro improbabile tra un uomo buono ma violento e un figlio che ha solo bisogno di un padre che non passi il tempo a bere, che sappia apprezzare il valore dei soldi e del lavoro, che rispetti la famiglia che ha creato. Lo aiutano Nicolas Cage, che a distanza di quasi vent’anni da quel Via da Las Vegas che gli valse l’Oscar, e dopo pochi momenti brillanti in un oceano di film e ruoli trascurabili, torna a dare corpo a un personaggio intenso, tutto giocato sulla sottrazione e pronto a esplodere di collera alcolica, di rabbia di fronte alle ingiustizie, e il diciassettenne Tye Sheridan. che ha ricevuto a Venezia il Premio Marcello Mastroianni destinato ai giovani attori, al terzo film e destinato a una carriera enorme.

Dopo le commedie, per lo più demenziali, su commissione Strafumati, Sua altezza e Lo spaventapassere, David Gordon Green è tornato nel 2013 con Prince Avalanche alla tematica centrale del suo cinema: il rapporto tra uomo e ambiente, non solo inteso come natura ma come contesto sociale che si riflette nei comportamenti e nelle abitudini. Con Joerecupera l’altro fulcro tematico, cioè quell’adolescenza che, dall’esordio con George Washington nel 2000 e nel successivo thriller Undertow del 2003, non lascia spazio alla crescita per portare a maturazioni brutali e necessarie.

Quando fa il suo cinema, Green si inserisce, insieme a Jeff Nichols (di cui aveva prodotto nel 2011 Shotgun Stories), in quella tendenza del cinema statunitense che guarda come riferimento principale alle Badlands di Terrence Malick (quelle del film La rabbia giovane del 1973) nel descrivere la vita degli Stati Uniti centrali, fatta di semplicità e noia contadina, di alcol bevuto in eccesso e lavori degradanti. Non a caso, Malick aveva prodotto Undertow. Non a caso, Tye Sheridan era già stato figlio di Brad Pitt  e Jessica Chastain in The Tree of Life,e poi protagonista per Nichols in Mud a fianco di Matthew McConaughey, a tracciare una sorta di linea di collegamento tra i tre registi.

(Joe, di David Gordon Green, 2013, drammatico, 117’)

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