[RFF9] Al Festival tra la famiglia Maia e una foresta di ghiaccio

di / 24 ottobre 2014

Os Maias, romanzo del 1888 di Eça de Queirós, è uno dei testi fondamentali della letteratura portoghese. Attraverso la vicenda di tre uomini della famiglia Maia – il nonno Alfonso, il figlio Pedro, il nipote Carlos – si racconta la storia dell’alta borghesia portoghese e delle sue contraddizioni e debolezze.

Al regista João Botelho, già a Roma nel 2008 con A corte do Norte, premiato con la menzione speciale, interessa fino a un certo punto approfondire il testo di Eça de Queirós. Sceglie di concentrarsi solo su alcune “scene di vita romantica”, come recita il sottotitolo, e in particolare sulla storia del nipote Carlos, recuperando le vicende di Alfonso e Pedro in rapidi flashback. Le vicende sentimentali dell’ultimo nato sembrano un pretesto per riflettere sulla condizione della società portoghese non solo nel diciannovesimo secolo, ma per riflesso anche su quella contemporanea, sulle sue fragilità e ipocrisie.

Dopo essere cresciuto nella casa di campagna con il nonno, suo unico tutore dopo la morte del padre e l’abbandono della madre, Carlos, ormai adulto, fa ritorno a Lisbona, nella casa di famiglia chiamata Ramalhete (rametto, e allude al girasole che compare sulla facciata) per avviarsi alla professione medica. Lì inizia a frequentare un gruppo di agiati borghesi di varia provenienza con cui conversa della situazione del paese e di donne. La pigrizia culturale e l’agiatezza porteranno Carlos a rallentare la sua formazione. È soprattutto con il poeta João da Ega che stringe un legame particolarmente intenso, condividendo con lui la passione per le donne sposate. Sarà proprio conoscendo una giovane sposata a un brasiliano, Maria, che Carlos farà una scoperta terrificante.

La rappresentazione vera e propria della storia della famiglia Maia non importa a Botelho. Lo mette in chiaro sin da subito dalla scelta stilistica che imposta la narrazione a una finzione teatrale. Tutto girato in interni, con gli sfondi affidati a pannelli acquerellati, luci intense e camera fissa, Os Maias strania lo sguardo dello spettatore con una confezione anticinematografica e una recitazione che non evita gli eccessi tragicomici. Il racconto dei vizi del giovane Carlos e dei suoi amici – l’adulterio come marchio d’infamia; la sostanziale mollezza di chi non esercita alcuna professione e vive delle risorse familiari – diventa simbolo del decadimento morale di un’intera classe sociale, allora come oggi, incapace di rimboccarsi le maniche se non nel momento del disastro, come nel finale incestuoso, che risveglia dall’illusione del nulla.

Nel mettere in scena la decadenza borghese, Botelho si diverte a giocare con vari strati di cultura, dal Gattopardo (il nobile Tancredi che conquista la madre di Carlos), all’accoppiata Signora delle camelie – Traviata, passando per Schopenhauer (la caduta della tenda/velo in casa Maia, nel finale di dolorose scoperte) e per l’ingenuità del Candido voltairiano.

Impeccabile nella confezione teatrale, raffinato e colto nella scrittura, Os Maias – Cenas da Vida Romntica stenta però a conquistare l’attenzione del pubblico per una eccessiva lentezza espositiva che si collega proprio al linguaggio del teatro. Ottimo il lavoro degli interpreti, in particolare di Pedro Inês, chiamato con il suo Ega a guidare l’intero cast tra i vari registri.

 

 

Esordisce invece al Festival Claudio Noce, che nel 2009 aveva vinto il premio per il migliore autore esordiente a Venezia con la sua opera prima Good Morning Amal. Lasciata Roma e la Somalia di Aman, Noce continua a parlare di immigrazione e integrazione in La foresta di ghiaccio raccontando la vita di frontiera del nord est italiano, andando a ritroso nel tempo fino al grande esodo che porto migliaia di rifugiati politici in Italia dall’ex Iugoslavia.

Pietro viene inviato in un piccolo paese tra le valli alpine per un guasto alla centrale elettrica che ha lasciato tutte le case senza corrente. Fa amicizia con Lorenzo, che lavora alla centrale gestita dal fratello di madre serba Secondo e va in giro con un quad sognando il Brasile. Lana è stata mandata lì da Lubiana. Il suo compito ufficiale è quello di rintracciare un orso che si aggira tra i boschi. In verità è una poliziotta in incognito che deve fare chiarezza sul ritrovamento del corpo di una ragazza nordafricana pochi metri oltre il confine. C’è un giro strano tra la malavita slovena e il paese, che ha che fare con dei misteriosi pacchi da consegnare. Quando Lorenzo sparisce l’indagine di Lana la costringe a confrontarsi con gli abitanti della valle.

Inverno, neve, freddo, boschi, cielo grigio, isolamento, buio. Elementi perfetti per costruire un noir. La piccola realtà del paese, con l’arrivo di due stranieri a turbare gli equilibri, un eremita sgarbato e temuto che dalla sua centrale non scende mai in paese e indossa sempre una pelliccia d’orso, una ragazza con qualche problema che tutti proteggono e sfruttano. Poi l’alcol, tanto, a ogni ora, a sostituire l’acqua, a dare calore e accendere scontri per riempire il vuoto del freddo e del tempo, e quella frontiera lì, a pochi passi, da cui entrare e uscire, con cui fare affari. Claudio Noce si è fatto affiancare in sceneggiatura da Francesca Manieri, Elisa Amoruso e Diego Ribon. In quattro hanno cercato di costruire una situazione di tensione, di sospetto continuo, di pericolo. Non ci sono riusciti, perché La foresta di ghiaccio si basa su una trama che ancor prima che confusa è improbabile nel suo tentativo di conciliare a tutti i costi momenti temporali lontani vent’anni.

Pur partendo da uno spunto interessante come può essere quello della realtà dell’immigrazione nel Nord Italia, i quattro sceneggiatori non sono riusciti a sviluppare un intreccio coeso, limitandosi ad aggiungere elementi senza preoccuparsi della coerenza e della coesione narrativa. In assenza di tensione nella scrittura, Noce ha poi pensato bene di ricorrere a ogni forma di stereotipo registico a sua disposizione, dall’abuso del rallenty, ridondante e retorico, alla sfilza di sguardi truci che i personaggi si scambiano a ogni occasione. Non aiuta la colonna sonora invasiva di Ratchev & Carratello, con l’esplosione mozartiana finale che dovrebbe comunicare una resa dei conti catartica ma contribuisce solo alla confusione generale.

Ci si può vedere una riflessione sulla natura feroce dell’uomo in una dimensione isolata e lontana dalla civiltà, sulla ferocia della contrapposizione nazionale delle terre di confine, ma sono elementi che non aggiungono spessore.

A sette anni dalla sua ultima regia, il pluripremiato Emir Kusturica continua a riproporsi come attore internazionale dopo Il paradiso degli orchi. Il suo Secondo, di poche parole, violento e forte, è notevole. In realtà tutto il cast si impegna, da Ksenia Rappoport a Domenico Diele, che interpreta il giovane ed enigmatico Pietro. Adriano Giannini si gonfia nei panni dell’alcolizzato triste Lorenzo e abbandona il ruolo di bello a tutti i costi.

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