“Nikolaj Gogol’”
di Vladimir Nabokov

di / 25 novembre 2014

Nel suo esilio americano, Vladimir Nabokov si dedicò, come scrittore (al di là della sua attività di professore universitario, da cui sarebbe vaporato il candido e stralunato fantasma di Pnin), a due dei grandi nomi del pantheon letterario russo dell’Ottocento: Puškin, di cui tradusse, impeccabilmente, l’Evgenij Onegin, e Gogol’, che affrontò nel saggio ripubblicato ora da Adelphi in una nuova traduzione, a oltre quarant’anni dalla prima edizione italiana, e che si intitola proprio Nikolaj Gogol’.

Come scrittore, si è detto: e infatti, il saggio del ’44 è quanto di più lontano si potrebbe immaginare da un compassato lavoro accademico, irto di note e riferimenti bibliografici; né vi è alcuna pretesa di completezza, nell’esame delle opere, perché Nabokov si concentra soltanto su tre di esse, che sono però i vertici riconosciuti della produzione gogoliana, Il revisore, Anime morte (come innovativamente titolano qui le curatrici italiane, sfruttando la mancanza di articolo della lingua russa) e Il cappotto; mentre solo in pochi, a volte sprezzanti cenni, viene liquidata la produzione giovanile, quella più nettamente connotata (e, per Nabokov, perfino viziata…) dal legame con l’ambiente ucraino da cui Gogol’ proveniva; poco altro, del resto, viene detto sui rimanenti racconti, assemblati dalla critica sotto il titolo di Racconti di Pietroburgo: non fosse che per confutare cocciutamente, del Naso, qualsiasi smaccata referenza all’aspetto fisico dell’autore, alla sua appendice nasale di affilata, spiovente lunghezza.

È con ben più deciso piglio e cadenza di narratore che Nabokov ripercorre non tanto la vicenda biografica esterna, dell’uomo Nikolai Gogol’, in quella che sarebbe stata una pedissequa elencazione di fatti e date, quanto piuttosto, con un folgorante processo di identificazione e distanziamento allo stesso tempo, la sua maniera – alogica, paradossale, e via via scivolante in giù, verso il gorgo della nevrosi – di reagire agli assalti che gli muoveva l’assurdo dell’esistenza.

Ed è ancora così, da scrittore, che Nabokov disseziona le opere; o per meglio dire, da manipolatore (con la stessa maniacale attenzione con cui deve aver imprigionato fra le dita i più variegati fra i suoi amatissimi lepidotteri) del linguaggio: fino a fornire – puntigliosità in cui traspare, struggente e scontrosa insieme, la nostalgia della non più articolata lingua russa – istruzioni di pronuncia di titoli e nomi di personaggi, per i suoi superficiali fruitori yankee.

Da quest’ottica fortemente letteraria nasce, ad esempio, la decisa enfatizzazione degli aspetti tutt’altro che “realistici” (concetto cui Nabokov non risparmia continue, spietate stilettate sarcastiche: «Nutro un insopprimibile disgusto per chi si compiace del fatto che la propria finzione narrativa sia educativa o nobilitante, o patriottica, o salutare quanto lo sciroppo d’acero e l’olio d’oliva») di un testo come Il revisore: «il dramma di Gogol’ è poesia in azione, e con poesia intendo i misteri dell’irrazionale così come vengono percepiti attraverso parole razionali»; ed è sovrana ironia, quella di Nabokov, quando derubrica a “divertente” il fatto che «questa pièce onirica, questo “Spettro Governativo”, fu trattata alla stregua di uno spettacolo comico sulle reali condizioni della Russia».

Meno che mai, dunque, il grande affresco delle Anime morte, (cui Gogol’ non faceva mistero di attribuire intenzioni latamente “dantesche”) va letto secondo Nabokov nel modo in cui soprattutto la critica ottocentesca, e ancor più quella russa d’isprazione marxista, lo ha sempre letto, cioè come un impietoso, perfino feroce reportage ante litteram sulla meschinità e l’abbrutimento morale in cui vive la classe dei possidenti alla metà dell’Ottocento, nel cuore della sterminata pianura russa: la piattezza grevemente antieroica – la pošlost’ russa, su cui Nabokov si dilunga con una insistenza tutt’altro che glottologica – del protagonista Čičikov non è invece altro che «uno dei principali attributi del Diavolo nella cui esistenza, aggiungiamolo pure, Gogol’ credeva molto più seriamente di quanto non credesse in Dio». Quello di Gogl’, insomma, non è il gesto di chi punta sulla realtà una lente che la avvicini e la rischiari meglio, ma di chi la irretisca in un gioco inesorabile di specchi deformanti.

Né meno urticante risulta la lettura dell’altro grande testo gogoliano, Il cappotto: «Le brecce e i buchi neri nel tessuto dello stile di Gogol’ implicano crepe nel tessuto della vita stessa. […] In questo mondo di assoluta futilità, di futile umiltà e di futile dominio […] qualsiasi miglioramento, qualsiasi lotta, qualsiasi scopo o sforzo morale sono totalmente impossibili, tanto quanto cambiare il corso di una stella».

Cosa resta, allora? Nient’altro, forse, che lo splendore abbagliante fino a cui può venir raffinata la prosa da uno scrittore sublime; valga per prova, se non altro, almeno una frase dell’explicit del libro: «Cercando di trasmettere il mio atteggiamento nei confronti della sua arte, non ho fornito alcuna prova tangibile della singolare esistenza di Gogol’. Posso solo mettermi la mano sul cuore e affermare che non è frutto della mia immaginazione. Scrisse davvero, visse davvero».

(Vladimir Nabokov, Nikolaj Gogol’, a cura di Cinzia De Lotto e Susanna Zinatto, Adelphi, 2014, pp. 183, euro 18)

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