“Hungry Hearts” di Saverio Costanzo

Morire di fame a New York in nome della purezza

di / 12 gennaio 2015

Jude e Mina si incontrano nel bagno di un ristorante cinese di New York. È un momento niente affatto romantico, ma diventa il primo momento di una storia d’amore. Vanno a vivere insieme, Mina è italiana e lavora negli Stati Uniti, ma possono trasferirla. Solo che rimane incinta, e allora rimane anche a New York, con Jude che la sposa e aspettano il bambino insieme. Un giorno un’indovina dice a Mina che suo figlio sarà speciale, un bambino indaco (come il titolo del libro di Marco Franzoso che Saverio Costanzo ha adattato), un neonato diverso dagli altri. Quando nasce, Mina decide che suo figlio vivrà al riparo da tutto ciò che è male: per i primi sette mesi di vita il bambino non esce dal piccolo appartamento che diventa una fortezza di imbottiture e reti per evitare incidenti, mangia solo quello che dice lei e che lei coltiva nell’orto ricavato in terrazzo, non vede medici. Jude è preoccupato, e tanto, perché il piccolo non cresce e la febbre non passa e Mina non vuole portarlo dal pediatra e quella che era una vita felice e serena diventa una guerra di ogni giorno, silenziosa e logorante, per il bene del figlio.

La storia di Jude e Mina, dei loro Hungry Hearts e del loro bambino senza nome, è un percorso nella paranoia e nell’ossessione che Saverio Costanzo segue rimanendo tutto il tempo vicino ai suoi protagonisti. Il suo cinema precedente, fatto di tre film diversi come PrivateIn memoria di me e La solitudine dei numeri primi, prosegue in quello che è il filo comune delle storie che racconta: il disagio dello stare al mondo, l’inadeguatezza nei confronti dell’esterno e dell’altro, sia esso il militare invasore o la società e le sue aspettative. Qui a patire il senso di alterità è Mina, straniera trapiantata in un paese lontano, sola senza genitori che segnino una radice con la terra che un tempo era sua, che ha solo Jude, prima, oltre il lavoro, e poi il bambino, che diventa il suo cordone di collegamento con il mondo, con un mondo autosufficiente che si accontenta della minuscola ma labirintica casa di New York. Franzoso ambientava la sua storia in Italia e lasciava la madre, lì Isabel, straniera. Costanzo sposta negli Stati Uniti perché la città è più fredda e altra e aggressiva e aumenta il senso di isolamento di Mina.

La profezia dell’indovina non la convince pienamente, anzi ne ride con Jude, ma sente qualcosa cambiare con la consapevolezza della gravidanza. L’esteriore diventa la sua unica preoccupazione, un concentrato di minacce per il figlio che verrà e che poi arriva. Tutto ciò che è altro da lei è pericoloso e sbagliato, incluso il padre, che può toccare il bambino solo dopo essersi lavato le mani, libero da contaminazioni del mondo fuori casa. Eppure Jude non la abbandona. È turbato per l’ossessione, non ne capisce l’ostinazione, ma si fida di Mina e di quello che dice, del suo legame con il figlio come sua naturale estensione. Solo che come padre è preoccupato per l’evidenza che vuole il bambino troppo magro e troppo piccolo con i mesi che passano, ed è in quel momento che avvia un conflitto segreto, fatto di omogeneizzati di carne dati di nascosto e di visite pediatriche.

Il tono del racconto si adegua al precipitare di Mina. L’incontro iniziale è da antologia della migliore commedia, lo sviluppo dell’amore è sereno ed esclusivo, fatto di giornate passate a letto e di sensualità quotidiana, il matrimonio è un trionfo di “What a Feeling” e canzoni napoletane stonate e ubriache. C’è un incubo ricorrente a segnare la rottura della serenità: l’immagine di un cacciatore che uccide un cerbiatto davanti al locale del matrimonio, e poi se ne va nel buio della notte. A quel punto la serenità passa e subentra la mania. Costanzo si avvicina ai suoi attori nella gabbia dell’appartamento, usa grandangoli che distorcono lo sguardo. È anche operatore, è lui a tenere la macchina da presa in spalla, a condividere lo spazio con Mina e Jude. Col crescere del disagio l’immagine è sempre più allucinata. Si è parlato di venature horror, di suggestioni di Hitchcock e ancora di più di Polanski. Vedeteci quello che volete, Hungry Hearts mostra soprattutto la deformazione della realtà nella lente di un sentimento eccessivo e malato. Perché Mina pretende una purezza ideale per il figlio che porta all’intransigenza e al pericolo, e Jude è troppo preoccupato per entrambi per riuscire a essere definitivo nei gesti e non ha altro rifugio se non la sapienza di sua madre. Si è detto anche che Hungry Hearts fosse un film sulle ossessioni alimentari (Mina è vegana, pretende il veganesimo per il figlio), ma la fissazione per il cibo è secondaria e inquadrabile all’interno di un discorso più ampio sulla dipendenza eccessiva delle madri dai figli, sulla possibile distruzione che può portare troppo amore.

Lasciati praticamente tutto il tempo soli sullo schermo, Alba Rohrwacher e Adam Driver (che sarà nel prossimo Star Wars VII – Il risveglio della forza e che è in netta ascesa a Hollywood) trovano una perfetta sintonia di nervi e di corpi che ha portato per entrambi una meritata Coppa Volpi all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Rohrwacher, smagrita e alienata, è bravissima.

(Hungry Hearts, di Saverio Costanzo, 2014, drammatico, 109’)

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LA CRITICA

La purezza come ossessione e minaccia. Per il suo quarto film, Saverio Costanzo sceglie di concentrarsi su un tema non semplice come la maternità malata. Lo fa affidandosi a una grande Alba Rohrwacher e all’incredulità di padre di Adam Driver. Hungry Hearts è un’allucinazione chiamata famiglia.

VOTO

7,5/10

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