“The Search” di Michel Hazanavicius

La guerra cecena secondo il regista di The Artist

di / 3 marzo 2015

The Search, ultimo film del regista premio Oscar Michel Hazanavicius, è stato accolto con una certa freddezza a Cannes lo scorso anno. Del resto, non era semplice mantenersi all’altezza delle aspettative dopo il trionfo oltre ogni previsione di The Artist, il film sull’epoca d’oro del muto che tra il 2011 e il 2012 ha vinto ogni premio possibile. Dopo tre anni e mezzo di silenzio (a parte un episodio nel molto più che trascurabile Gli infedeli del 2012), Hazanavicius ha scelto di cambiare completamente registro per il suo nuovo film: da una commedia muta a un dramma bellico recitato in quattro lingue, da Hollywood al Caucaso, dalla grande depressione alla seconda guerra di Cecenia.

È il 1999. Il secondo conflitto ceceno è appena iniziato. Mentre Boris Eltsin indica come suo successore alla presidenza della repubblica l’allora primo ministro Vladimir Putin, l’esercito di Mosca entra in forze in Cecenia alla ricerca di terroristi, distruggendo villaggi e uccidendo contadini disarmati. Tra questi ci sono anche i genitori del piccolo Hadji, che riesce a nascondersi e a scappare portando via con sé il fratellino di pochi mesi. Carole, invece, è una funzionaria dell’Unione Europea che in mezzo alla distruzione e al conflitto deve accertare che non vengano violati i diritti umani fondamentali, ma le sue denunce non servono a niente. A quasi tremila chilometri di distanza, intanto, un giovane russo, Kolja, viene arrestato per possesso di droga. Deve scegliere che fare della sua vita: se andare in carcere o partire per il fronte. Poi c’è Raïssa, la sorella di Hadji, che parte per cercare i fratelli dopo essere stata rilasciata dai soldati.

Sin dalla sequenza iniziale di The Search è chiaro da che parte intenda stare Hazanavicius. L’esecuzione dei genitori di Hadji e Raïssa, girata direttamente da un soldato con una telecamera a mano trovata lì nel villaggio, mostra tutta la violenza dell’esercito russo. Una violenza brutale, animalesca nel suo essere distante da ogni tipo di empatia umana. I russi sono tutti cattivi: urlano, godono nel ferire, nell’uccidere e nel distruggere. I ceceni sono i loro nemici, non meritano alcuna considerazione, solo di essere umiliati e terrorizzati. Il male è incarnato solo dai russi. O meglio: non sono i russi ad essere cattivi, è il sistema militare a essere sbagliato, a creare mostri.

La storia di Kolja serve a questo: il ragazzo sceglie la leva e il fronte per evitare la prigione. Al campo di addestramento capisce in fretta che gli sarebbe convenuto andare in galera, sarebbe stato più semplice. Vessazioni, botte, torture psicologiche e fisiche; lo menano tutti, dalle altre reclute ai soldati semplici, fino agli ufficiali. L’addestramento del tenente Hartman, in confronto, è un villaggio vacanze. È un ambiente invivibile quello dell’accademia, infatti sono in molti a scegliere il suicidio e a essere spacciati per eroi. Si può sopravvivere all’addestramento solo rinunciando al proprio bagaglio di umanità. Kolja lo capisce e allora massacra di botte senza motivo un’altra recluta sotto lo sguardo divertito di due soldati. Solo in questo modo, lasciando libera la violenza contro il più debole, si può diventare soldati. I russi, i singoli russi, quindi, non sono responsabili, sono vittime, in modo diverso dai ceceni, magari, ma sempre vittime, di un sistema bellico che li vuole disumani. La rinuncia a ogni forma di umanità è l’unico modo per sopravvivere. «Sono in paradiso» dice un soldato a Kolja davanti al rogo di un palazzo ceceno. Lo pensa davvero. Nell’esaltazione della violenza i valori si ribaltano: distruggere diventa costruire, uccidere far vivere.

La dimensione umana è invece il perno su cui si è costruita la società cecena e su cui continua a basarsi anche davanti ai carri armati russi. Tutti sono pronti ad aiutare tutti, i figli sono responsabilità comune ed è nel momento del bisogno che l’idea di comunità prevale sull’individualismo. Hadji e Raïssa lo sanno da sempre, fa parte della loro cultura.

In questo conflitto tra umano e disumano si pongono le organizzazioni internazionali. L’Unione Europea manda un funzionario come Carole a cercare la verità sui diritti umani, poi però ne ignora i rapporti, anche quando lei li presenta direttamente in aula a Bruxelles. «Non è una campagna contro il terrorismo, è una guerra d’invasione» dice a un’aula semi-deserta e indifferente. Carole capisce tante cose in quel momento, le cose che Helen, che lavora da tanti anni per la Croce Rossa, già sapeva e già le aveva provato a spiegare. La denuncia, nient’affatto velata, è rivolta all’indifferenza generale delle istituzioni e dei media internazionali di fronte all’atteggiamento russo in Caucaso, al silenzio che ha accompagnato (e continua ad accompagnare) le manovre politiche e militari di Mosca.

The Search ha dei pregi che non si possono discutere. Nella recitazione, ad esempio, con Bérénice Bejo e Annette Bening (Carole e Hanna), unici volti noti al pubblico occidentale, che ce la mettono tutta a livello di trasporto emotivo, e il piccolo Abdul-Khalim Mamatsuiev (Hadji) che con il suo incedere catatonico fa capire tanto dei traumi della guerra; nell’immedesimazione con cui Hazanavicius riesce ad accompagnare i suoi personaggi (il piano sequenza dell’esordio di Kolja in guerra, tutto in soggettiva); nel contributo tecnico generale.

A emergere, però, sono soprattutto i difetti e a farsi notare, soprattutto, è la lunghezza eccessiva. Due ore e mezzo sono troppe, anche perché molti passaggi potevano essere sintetizzati o rimossi, addirittura. La sceneggiatura non è adatta a una simile durata, rallenta troppo, poi accelera, poi si perde, poi torna. A risentirne è la tenuta emotiva generale, la tensione drammatica che si disperde nella frammentazione delle trame. In questa lungaggine narrativa ogni ricerca di coinvolgimento emotivo dello spettatore assume l’aspetto del colpo a effetto, del tentativo di strappare una lacrima di commozione o di partecipazione.

Diciamo che Hazanavicius, galvanizzato dal successo colossale di The Artist, ha provato di dimostrare a tutti, anche a se stesso, di essere un autore come si deve e non solo il regista delle parodie di 007 che lo hanno reso famoso in Francia (i film di OSS 117, con Jean Dujardin). È partito da Odissea tragica, film di Fred Zinnemann del 1948 in cui una madre cerca il figlio sopravvissuto ad Auschwitz e accudito dal soldato statunitense Montgomery Clift, e ha provato ad attualizzarlo parlando di un conflitto troppo spesso ignorato dall’attenzione occidentale. Ha scelto la finzione ma non ha rinunciato a elementi documentaristici (le testimonianze che raccoglie Carole) per cercare la sensazione nello spettatore.

In generale, The Search sostiene tre tesi fondamentali: l’inutilità della guerra che allontana gli uomini dalla loro empatia; l’importanza della solidarietà; l’incapacità delle organizzazioni internazionali. Prova a non prendere una posizione netta, a condannare il conflitto in sé e non i suoi interpreti, ma non ci riesce. Tutto risulta abbastanza chiaro nella prima mezz’ora, il resto è solo inerzia.

(The Search, di Michel Hazanavicius, 2014, drammatico, 148’)

  • condividi:

LA CRITICA

Chiamato a un difficile ritorno dopo il trionfo di The Artist, Michel Hazanavicius ha cercato di definirsi come autore completo cambiando in modo radicale stile, registro e ambientazione. The Search, nel bilancio generale, ha più pregi che difetti, ma per poco. Coinvolge, ma stanca, denuncia, ma non approfondisce.

VOTO

6/10

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio