“Mémé”
di Philippe Torreton

Un ritorno all’infanzia alla ricerca di ricordi sopiti nel tempo

di / 16 marzo 2015

Se siete restii a esternare i vostri sentimenti, chiudetevi in camera da soli, e mentre leggete Mémé di Philippe Torreton (Rizzoli, 2014) lasciate che vi sommergano, che smussino ogni fibra del vostro corpo, abbandonatevi al ricordo dell’innocenza, quando la vita era veramente una favola, quando bastavano pochi gesti gridati con tutto l’amore del mondo (e forse anche di più) per farci sentire tutti re e regine del palazzo fatato della nostra infanzia.

«Mémé era nata il 6 marzo del 1914, era dei pesci. Il suo cognome da ragazza era Gosselin, poi era diventata Lehoc e infine Porte.»

Mémé è una nonna, coriacea e forte, che ha vissuto la guerra, che ha una fattoria in Normandia, a Triqueville, che ha condotto una vita lontana dai ghingheri di cui vestono le donne oggi. Perché ha dovuto sempre mettere da parte la sua femminilità per portare avanti il suo lavoro. Mémé è la depositaria di un sapere antico, fatto di semplicità, di rimedi per le malattie fatti in casa, di baci regalati appoggiando la guancia e non le labbra. Mémé è il Natale trascorso tutti insieme intorno al tavolo della sua grande casa, è una bambola fatta a mano per la figlia, è «il rispetto per la vita, la parsimonia con cui prelevava solo il necessario, il riciclo degli oggetti e la preoccupazione di tramandare ai discendenti una terra che avrebbero potuto sfruttare senza bisogno di decontaminarla».

Mémé è la fatica del corpo, il cui unico sintomo è il sorriso. E quando si ammala, tutto questo mondo svanisce. Ma insieme a lei non si eclissa il suo ricordo. «Non è facile morire»: sono le ultime parole, l’ultima battaglia del suo fisico, l’ultimo sospiro di Mémé sussurato con la grazia e la tristezza di chi sa di doversene andare, con la consapevolezza di lasciare il mondo che ha visto cambiare.

Mémé è l’ultimo accorato saluto a una nonna dal nipote, entusiasta ed emozionato di vederla sedere tra il pubblico mentre assiste alla sua prima performance teatrale; che ricorda nell’oggi dominato dalle automobili, dalla rete internet, dalle email, la sua fanciullezza, in cui la rete si costruiva al mercato, le email erano lettere consegnate dal postino atteso con trepidazione, cui Mémé offriva sempre uno spuntino. Perché Mémé è fatta anche di musica, di sapori e odori che si istallano sul pentagramma della sua esistenza: «la poesia è questo, la poesia è un’infanzia squarciata di odori».

Sono la nostalgia e la tenerezza le sole chiavi di lettura di questo memoir, un testo che sicuramente non annovera tra i suoi sinonimi “fatica”, perché quello che l’autore scrive è dettato dal cuore e dalla memoria, per ricostruire un mondo perduto ma vivido e al tempo stesso ossimoricamente presente. E oggi – conclude lo scrittore – «per fare una mémé ci vuole un po’ di tempo che fu e tanta costanza».

In Mémé la scrittura annulla il presente, si fa ricordo, è una cinepresa che dà conto solo del passato. E grazie a esso Torreton ci fa rivivere in poche pagine sentimenti che riposavano sepolti nei cassetti della nostra memoria. E aspettavano solo lui per risvegliarsi.

(Philippe Torreton, Mémé, trad. di E. Cappellini, Rizzoli, 2014, pp. 142, euro 15)

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LA CRITICA

Un memoir sentimentale che ripercorre l’infanzia dell’autore attraverso una narrazione discontinua che ripropone singolarmente diversi ricordi, ravvivando in tal modo anche quelli che restano sopiti nel fondo dell’anima di ognuno di noi.

VOTO

8/10

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