“A pesca nelle pozze più profonde”
di Paolo Cognetti

Scrivere la meraviglia nelle zone d’ombra dell’animo: considerazioni pragmatiche sul racconto

di / 31 marzo 2015

Se con Nietzsche abbiamo riconosciuto il tempo dell’esistenza come imperfetto e mancante di presente, potremo ritenere che la memoria abbia una forma irregolare, percorsa da associazioni inaspettate. Ancora: «Siamo camere oscure dotate di una bizzarra lastra fotografica – la memoria – che si rifiuta di obbedire agli ordini, s’impressiona quando pare a lei e ci restituisce vecchie immagini che non le abbiamo chiesto di tenere», suggerisce Paolo Cognetti nel saggio critico, A pesca nelle pozze più profonde (minimum fax, 2014).

Cognetti assembla le voci di un’America letteraria e affettiva in cui ha scelto di riconoscersi, mettendo in scena un apprendistato in cui spiccano, fra i molti autori, Raymond Carver, Ernest Hemingway, Flannery O’Connor e J.D. Salinger. Questa rete di corrispondenze, radicandosi nella convinzione bartesiana secondo la quale il testo è un tessuto, dimostra quanto possa essere fertile la contaminazione narrativa: per farlo, annota Cognetti, c’è bisogno di aggrapparsi alla memoria, alle sue volute e intermittenze, alla sua natura di serbatoio inesauribile di storie. Una memoria individuale, che si estende per esplorare le memorie altrui, e farsi collettiva.

Perché la memoria? È lì che vivono tutte le storie che abbiamo ascoltato fin da piccoli, e l’autore rimarca di sapere a memoria gli incipit dei suoi racconti preferiti. Cognetti attinge le qualità primarie che fanno di loro se stessi: il segreto della voce autoriale è presente in poche righe, in tic che diventano sintomatici di uno sguardo. Dei suoi autori beniamini, Cognetti prova a cercare sottili simmetrie coi personaggi: così Salinger si mimetizza, con qualche refrattarietà, nelle prime narrazioni, come nel soldato del delicato “Per Esmé: con amore e squallore” e ha scelto la reticenza, esistenziale e narrativa, come arma di difesa. Cognetti non nasconde di prediligere il minimalismo: Carver è eletto a simbolo di una moltitudine silenziosa di esistenze fallite, fra mite rassegnazione e scampoli di redenzione (in seguito al fortunato incontro con Gordon Lish). Se il suo sguardo è compassionevole, i toni schietti della O’Connor sbriciolano il perbenismo che protegge le coscienze meschine, come in “Brava gente di campagna”. «Ama i tuoi personaggi e poi fa’ quello che vuoi», ammonisce Cognetti. Se lo scrittore chiede al personaggio di assecondare una tesi politica o una verità morale qualsiasi, inevitabilmente lo priverà della sua autonomia, forzando la natura gratuita e aperta dell’atto narrativo. Pertanto, continua, la terza persona è garante di maggiore distanza narrativa: una forma di rispetto che ripudia l’onniscienza come una chimera limitante.

Grazie alla metafora della pesca, Cognetti sviluppa l’argomento-cardine, ossia che la scrittura è l’ostinata esplorazione dell’ignoto, dettata dalla meraviglia e dall’ascolto degli «altri echi che abitano il giardino», per dirla con T.S. Eliot. Meditare sull’arte di scrivere racconti non significa ricercare l’idea platonica della grazia, ma affinare la capacità di far irradiare di mistero le storie. Nel narrare, non si rintraccia un ordine definitivo, ma un mosaico che custodisce frammenti di realtà, che si riflette in garbate intermittenze narratologiche: è un pregio nel testo, che tuttavia finisce per fagocitarlo. Cognetti pensa al something glimpsed caro a Carver, ai ritagli che agiscono come esplosioni a cui si riferisce Cortázar per le storie. Alle riflessioni di Grace Paley (per la quale il racconto è un punto di domanda). Non dimentica le epifanie cechioviane, e l’istanza di «mostrare come la luce cade sul mondo, anche dove essa non arriva». Una scrittura fatta di sé e di Altro e di molteplici antonimie, fra tutte incontro-solitudine.

Una tale ridondanza di presenze rende il libro stimolante, ma decisamente claustrofobico. Quasi venisse a mancare lo spazio bianco che Cognetti stesso ammira nei racconti: forse la vorticosa girandola di autori e appunti puntuali è solo horror vacui, ma come negare che l’impianto del saggio tende alla dispersione? Un testo assai più narrativo che riflessivo.

(Paolo Cognetti, A pesca nelle pozze più profonde, minimum fax, 2014, pp. 130, euro 13)

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LA CRITICA

Cognetti mostra a quali autori guarda quando scrive, allestendo un gioco di echi letterari estroso, ma il meccanismo rischia di arenarsi per la povertà di idee di fondo e la prolissità ingiustificata di certe parti, su tutte “la pesca”. I racconti non sono analizzati con strumenti critici, ma se ne mette in luce una o due caratteristiche. L’effetto antologia liceale resta in agguato.

VOTO

7/10

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