“Lo schiavista”
di Paul Beatty

Uno dei migliori romanzi dell’annata

di / 18 novembre 2016

copertina di Lo schiavista su Flanerí

Ok, non ci sono solo gli americani – per dire, la Francia in questi anni può vantare un numero di scrittori di razza assai nutrito e giustamente nelle ultime settimane da noi molto si è parlato di Volodine, Énard, Michon. Però, in attesa di trovare nuova linfa (letteraria) dalla vittoria del folle avversario della signora Clinton, gli statunitensi bianchi e neri non hanno smesso di scrivere – e bene, come nel caso di Paul Beatty, autore di un romanzo strepitosamente divertente (ma serissimo). Il titolo è Lo schiavista (Fazi, 2016), lo ha tradotto Silvia Castoldi – meravigliosamente.

Lì per lì ti pare stand-up comedy: il narratore s’imbarca in un prolungato, verbigerante e amaramente elegante racconto sulle proprie disgrazie di afroamericano invischiato nel classico “mare di guai”. Che però è tutt’altro che prevedibile – e il romanzo non è cabaret ma un lavoro dai tratti magistrali. Figlio di un assai maldestro ma impunito psicologo che nel ghetto alla periferia di Los Angeles – per una sua personalissima idea su come impegnarsi nella faccenda razziale – sottopone il bambino a farsesche prove senza ritorno, costui nonostante gli sforzi per rinnegare la sua educazione, da adulto non riuscirà a essere meno bizzarro. Al punto di finire in un’aula di tribunale, stravolto dalla marijuana, inviso a bianchi e neri (una nera «seduta in prima fila» se lo guarda «come un’appropriazione anglosassone remixata dalla musica nera»), difeso da un avvocato che le physique du rôle ce l’ha sì ma da delinquente (doppiopetto bianco, capsula d’oro fra i denti, stuzzicadenti posato con cura sul leggio). La causa? Aver tentato di riportare in auge – lui, nero scombiccheratissimo – la segregazione razziale. Riproposta diciamo “dal basso”. Un modo per reagire alla cosmesi urbanistico-culturale che, cancellando il ghetto, integra forzosamente la comunità nera al resto e la lascia vuota: di storia, di senso, di identità. Così mr. Me prende con sé un vecchietto – volontario, va detto – e si organizza per ripristinare con puntiglio la pratica della schiavitù. Il resto sta nelle trecento pagine di un racconto che solo un recensore convinto infantilmente di saperla lunga può scambiare per politically correct.

Laddove invece Beatty, autore coltissimo, descrive il paradossale (e insano?) scenario odierno in cui qualcosa sembra esser andato storto se neri di fama mondiale come Condoleezza Rice o Colin Powell firmano una pagina, il caso di dire, nerissima della recente storia americana (se l’Iraq vi dice ancora qualcosa). La narrazione è avvolgente, divagante solo all’apparenza – ricca di assoli linguisticamente vorticosi che si saldano bene ai fatti insensati che racconta.

Se volete una storia che va subito al dunque, Lo schiavista non è il libro che fa per voi – del resto perché nell’anno di grazia 2016 dovreste cercarla proprio in un libro? Diverso è il caso se invece siete disposti a farvi trascinare dall’intelligenza di una scrittura sferzante, capace di rispolverare l’arte della satira adombrandola nella capziosa compunzione di un autodafé tutt’altro che pacifico – pare girarci intorno, il narratore, ma l’esercizio della digressione di cui è chiaramente maestro si pone al servizio di una lettura serissima della questione razziale negli Stati Uniti di oggi.

Potete non fidarvi del trascurabilissimo recensore ma magari può convincerci la notizia che Beatty, in questi giorni in giro per l’Italia, in patria ha vinto prima il National Book Critics Circle Award 2015 e pochi giorni fa il Man Booker Prize – affari un tantino più seri di certi nostri imbevibili liquori.

 

(Paul Beatty, Lo schiavista, trad. di Silvia Castoldi, Fazi, 2016, pp. 369, euro 18,50)
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LA CRITICA

Un romanzo colto, divertente e serissimo: quando il tragico non è possibile prenderlo di petto, bisogna saper ridere come un monaco sull’orlo dell’abisso.

VOTO

8/10

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