“Gin tonic a occhi chiusi”
di Marco Ferrante

La fotografia di una classe dirigente in disfacimento

di / 19 aprile 2017

La letteratura ha la capacità di rivelare le molte zone d’ombra, che il sistema di valori di una classe sociale in dissolvenza vorrebbe insabbiare, fatte di mezze verità, reticenza, slealtà e dubbia moralità, diffamazione e altri comportamenti equivoci nei quali valori quali l’onestà appaiono appannati e immersi in un’atmosfera torbida e sfuggente. Gin tonic a occhi chiusi (Giunti, 2016) di Marco Ferrante, giornalista economico, autore televisivo (è vicedirettore di La7), scrittore, è il necrologio di una classe sociale ubriaca di effimero e frivolezza: la medio-alta borghesia. Un io narrante esacerbato e impassibile offre un ritratto puntuale e spietato della classe dirigente italiana. Racconta l’epica di questa classe, i suoi luoghi, i suoi sapori e le sue magagne, i suoi costumi e fatti rimasti sotto la cenere.

Gin tonic a occhi chiusi è la storia di una famiglia infelice in cui è alto il tasso di analfabetismo sentimentale. Una matriarca, Elsa Misiano, che «ha educato i figli a un puro spirito competitivo», un padre rassegnato, «avvocato, porschista e ideologo di barche», tre fratelli, il primo, Gianni, fa il commercialista, «egoista invincibile, intelligente, piantato sulle gambe», il secondo, Paolo, è un deputato, emotivamente e sentimentalmente fragile, per darsi un’identità si fa promotore di una campagna contro l’energia eolica, il terzo, Ranieri, è un «giornalista, non brillante, belloccio, pretese estetizzanti, tendenzialmente fortunato. Sua madre lo preferisce sfacciatamente agli altri due figli, che lo considerano uno stronzo», e poi due mogli, divorzi, altre mogli, fidanzate occasionali, mamme e figli ancora piccoli, amanti, amiche delle mogli, amiche delle amanti, assistenti parlamentari dal mestiere incerto. Tutti sono meschini, piccoli, mediocri, ipocriti, arroganti, spocchiosi, pettegoli, precisi nella forma e sciatti nella sostanza.

Seguiamo la vicenda della degradazione di questa famiglia, un po’ la versione aggiornata e casereccia dei Buddenbrook, attratti e insieme annichiliti da una tale concentrazione di squallidi sentimenti che vanno dalla diffidenza all’odio.

L’autore cerca di setacciare il paesaggio boccheggiante contemporaneo con il rastrello della sua indagine. Riusciamo a riconoscere i meccanismi difettosi di questa società e cultura che è anche la nostra: la corruzione diffusa, il machismo imperante, la stampa prona al potere.

La realtà intorno non poteva che essere restituita se non accogliendone la frantumazione come in un quadro cubista. La scrittura di Marco Ferrante li tratteggia con pennellate veloci che fissano frammenti di conversazione, interessi, oggetti, manie.

Ranieri ne è l’esemplare: «Lui ha sempre tutto. Chinotto, crodino, Coca-Cola, succhi vari, Vodka Belvedere e altri prodotti polacchi che vanno per la maggiore, Campari, Bitter San Pellegrino, Perrier, aranciate dolci e amare, birre artigianali, birre tedesche e sudamericane, vini italiani, vini francesi, vini israeliani (kosher), vini australiani, whisky, grappe, quattro o cinque gin uno diverso dall’altro – uno super secco per il Martini – e numerose marche di soda». Il suo unico talento è preparare un gin tonic a occhi chiusi.

Paolo invece è la personificazione dell’incapacità di scelta, della perenne indecisione, dello spaesamento di fronte alla vita: c’è sempre qualcuno che sceglie al posto suo (donne, per lo più, che siano la madre, la moglie o l’amante, poco importa).

Tutte le dinamiche disfunzionali di questa famiglia sono ispezionate al microscopio con l’oggettivo spirito di osservazione di un entomologo.

Il romanzo nasce per raccontare la borghesia, la sua decomposizione, la melmosa crisi di un’élite che non ha più la forza per dire o rappresentare qualcosa, frustrata nella sua paura di perdita della considerazione sociale e politica.

Ma ormai la res publica è degradata a solo argomento di conversazione. C’è chi parla di mutazione antropologica per una classe che ha perso qualsiasi ambizione collettiva.

Nella famiglia Misiano ci sono i tratti di quella borghesia romana ormai al tramonto: un po’ di ricchezze ereditate, che garantiscono barche e case delle vacanze, oltre quel minimo di servitù necessaria a una certa vita sociale, pura «soddisfazione esistenziale» per Elsa.

Roma sullo sfondo è quello che rimane di La grande bellezza. Ferrante ci svela il quadro di una Roma felliniana nauseante e di rapporti umani deprimenti mettendo in luce i meccanismi di una dissoluzione clinicamente irreversibile.

Nei Misiano si riconosce il profilo di certe famiglie degli ultimi trent’anni che si sono diligentemente preoccupate del miglioramento sociale: il proprio. Piccole ricchezze accumulate con pazienza, qualche casa in affitto che garantisce la manutenzione della barca e gli stipendi della servitù.

La scrittura di Ferrante è rivelatrice, dissacrante, a tratti divertente, fotografa in maniera impeccabile la mente, il cuore e i cliché di una grande famiglia della borghesia romana dei giorni nostri, descrivendo lo sfarinamento di una classe dirigente e quello di un intero paese.

 

(Marco Ferrante, Gin tonic a occhi chiusi, Giunti, 2016, pp. 352, euro 16)
  • condividi:

LA CRITICA

Ferrante analizza attraverso le vite dei suoi personaggi la crisi sociale e di valori dei nostri giorni facendone i simboli della decadenza contemporanea.

VOTO

7/10

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio