NELLA STANZA CON SCOTT

Gli ultimi fuochi, ovvero “L’amore dell’ultimo milionario” di Francis Scott Fitzgerald

di / 30 luglio 2018

Questa storia comincia dove l’altra finisce. Nel senso che per parlare del romanzo incompiuto di Francis Scott Fitzgerald è bene tornare per un attimo a Festa Mobile, libro del quale ci siamo occupati nell’ultima tappa del nostro percorso. Nel suo memoir parigino Hemingway parla di Fitzgerald con il barman dell’hotel Ritz: «ha scritto due libri molto belli», gli spiega, «e uno mai finito che i migliori conoscitori delle sue opere dicono sarebbe stato molto bello».

Il libro in questione è The Love of the Last Tycoon, che Fitzgerald lasciò incompiuto morendo per un attacco cardiaco il 21 dicembre del 1940. Più che un romanzo è la promessa di un romanzo: l’eredità di Scott consiste nell’inizio di una storia e in una serie di appunti sparsi, materiale utile per arrovellarsi su un potenziale capolavoro. Sarebbe stata vera gloria? Le premesse ci sono tutte. Matthew Bruccoli, biografo di Fitzgerald, definisce il romanzo «il più promettente e il più frustrante frammento della narrativa statunitense». A meno di un anno dalla morte dell’autore, il critico letterario J. Donald Adams scriveva sul New York Times che «bisognerebbe essere ciechi per non accorgersi che [The Love of the Last Tycoon] sarebbe stato il miglior romanzo di Fitzgerald, o comunque un’opera molto valida».

Approcciando il racconto, l’autore sembrava ottimista: «non c’è niente che mi preoccupi, niente che appaia incerto». Ma questo è tipico delle storie ancora allo stato embrionale. Andando avanti le cose si complicarono, come si deduce dalle incertezze e dai ripensamenti evidenti negli appunti di lavoro. Fitzgerald vuole «confondere e in un certo senso irritare quei pochi lettori» che gli sono rimasti, ma l’operazione è «difficile come cavare un dente». Deve scegliere se raccontare la storia in terza persona o affidare la narrazione a uno dei personaggi, Cecelia, ma non si decide, e così l’intreccio si svolge in un rimpallo di voci che fa calare sulla vicenda un’atmosfera di lieve incanto. Nella fase di definizione dei personaggi, forse la più importante, la stanza di Scott si riempie di diagrammi, come se l’autore aspirasse a riprodurre la realtà in scala uno a uno: una mimesi perfetta.

La verità, a ben guardare, è che quasi tutte le opere di Fitzgerald hanno rischiato di rimanere incompiute. «La storia della mia vita», scrisse una volta l’autore di St. Paul, «è la storia della lotta tra il prepotente impulso di scrivere e un insieme di circostanze volte a impedirlo». Quello di Fitzgerald è l’esempio di come la vocazione artistica si scontri spesso con gli intoppi della vita quotidiana. L’alcolismo, una situazione finanziaria altalenante, il successo precoce precocemente svanito e l’invidia più o meno inconscia della moglie Zelda hanno cospirato per impedire a Fitzgerald di diventare quello che era: un maestro della letteratura mondiale. Il sabotaggio è fallito, ma Scott è morto troppo presto per saperlo.

Se il Grande Gatsby è stato composto sulle ali dell’entusiasmo, tra la riviera francese e Roma, L’amore dell’ultimo milionario viene scritto nelle peggiori condizioni possibili: Fitzgerald è economicamente in affanno, deve pagare la retta del college della figlia e la costosa clinica in cui è ricoverata Zelda. Vive a Hollywood, dove scrive per il cinema, un lavoro che lo attrae ma in cui non brilla, e che dunque finisce per odiare. È arrivato in California pieno di entusiasmo: è convinto che il grande schermo possa fargli riconquistare il “tocco”. Negli anni Venti era stato considerato un mago delle parole, ma con la crisi del ’29 i gusti dei lettori erano cambiati e lui non sembrava più in grado di intercettarli. A Hollywood lo pagavano bene, ma non era solo questo: Fitzgerald sapeva che il cinema può fare arrivare la narrativa alla massa, eppure cadde nell’errore di considerare romanzo e sceneggiatura come prodotti intellettuali sostanzialmente assimilabili. Sul New Yorker Arthur Krystal ha scritto che Fitzgerald «non seppe compiere il passaggio dalle parole alle immagini. I suoi soggetti erano inutilmente complicati, i dialoghi involuti o enfatici e il tono troppo grave, a volte addirittura cupo». Le sceneggiature di Fitzgerald erano eccessivamente dettagliate, un peccato fatale quando si scrive per il cinema, e questo nonostante Fitzgerald sia l’autore della frase «l’azione è il personaggio», primo comandamento di qualsiasi sceneggiatore. Secondo Billy Wilder, Scott era come «un grande scultore chiamato a fare un lavoro da idraulico»: a Hollywood videro tutti l’artigiano maldestro, ma in pochi riconobbero l’artista di talento.

The Love of the Last Tycoon nasce in questo clima: un romanzo che parla di cinema ma con lo sguardo di un estraneo. Il protagonista del libro è Monroe Stahr, figura dichiaratamente ispirata a quella di Irving Thalberg, golden boy della MGM dal 1924 al 1936. Stahr è un self made man autoritario ma illuminato, geniale nelle intuizioni che guidano il suo lavoro. Ha la patina dell’eroe romantico, non tanto per il modo in cui sopporta il peso delle responsabilità, quanto perché una malattia fatale allunga su di lui l’ombra della tragedia. Vedovo della diva Minna Davis, s’innamora di una donna umile e sensuale, mentre sullo sfondo della depressione economica combatte una battaglia cruenta per il controllo della casa di produzione in cui lavora. Svelare il seguito è un errore che non rischio di commettere, visto che Fitzgerald non ha fatto in tempo a scriverlo (negli appunti dell’autore, in realtà, c’è quello che avrebbe dovuto essere il finale, ma chi può dire che non sarebbe cambiato?).

Dopo la morte di Fitzgerald l’editor Maxwell Perkins affidò il manoscritto a Edmund Wilson, un vecchio amico di Scott che curò una discutibile edizione uscita di lì a poco. Diversi anni dopo il già citato Bruccoli diede alle stampe una versione del romanzo filologicamente più affidabile, arricchita da appunti originali dell’autore che costituiscono un vero tesoro nascosto. In Italia la Alet ha pubblicato una traduzione dell’opera ricalcata sulla versione di Bruccoli, ma la fine precoce della casa editrice ha reso il volume quasi introvabile.

Spiare un romanziere al lavoro è il sogno proibito di molti lettori e l’edizione di Bruccoli ci consente di dare una sbirciatina al sancta sanctorum. Sul magazine online Electric literature Kristopher Jansma ha notato che «un romanzo incompiuto finisce sempre per essere frustrante e prezioso nello stesso tempo. Forse pubblicare una bozza è sbagliato, ma sull’altro piatto della bilancia c’è l’opportunità di dare un’occhiata al modo in cui viene insaccata la salsiccia. Gli incompiuti smontano le nostre illusioni e ci ricordano quanto in fondo siano umani i nostri eroi letterari». Grazie agli appunti di Scott scopriamo lo sforzo necessario per cesellare una frase ben riuscita. Ha ragione Nabokov: solo ciò che viene scritto con fatica si legge con facilità. Scrivere bene è nuotare sott’acqua trattenendo il fiato, diceva Fitzgerald, che a Los Angeles perse ogni cosa tranne l’audacia di rischiare. Mise tutto sul piatto, conservando lo stile consueto, ma affrontando temi per lui del tutto inediti: la West Coast, il cinema, la crisi economica. Lo sforzo è ripagato da pagine che, anche in bozza, suonano perfette.

Come questa: «seduti sugli alti sgabelli, presero minestra di pomodoro e toast. Era la cosa più intima che avevano fatto, ed entrambi sentirono una pericolosa sensazione di solitudine, che avvertivano ognuno nell’altro. Condivisero i vari aromi del locale, amaro e dolce e aspro, e il mistero della cameriera con i capelli tinti, ma neri sotto e, quando ebbero finito, la natura morta dei loro piatti vuoti: una fettina di patata, una di sottaceto e un nocciolo di oliva.

Faceva sera, fuori, e le fu facile sorridergli, adesso che risalivano in macchina.

“Grazie davvero. È stato un bel pomeriggio”.

Non erano lontani da casa sua. Si intuiva il principio della salita, e sapevano che il rumore più forte della macchina in seconda era l’inizio della fine».

L’inizio di un amore è un tema frequente nei romanzi, nonostante sia tra i più difficili da affrontare: farlo e uscirne vincitori è roba da maestri. Fitzgerald indubbiamente lo era, e come Hemingway inanellava lampanti verità: cose come «quello di cui la gente si vergogna, in genere è un buon materiale per una storia», o «le case hanno una strana immobilità quando non c’è chi ci abita».

Sembra incredibile, ma scorrendo gli appunti di Fitzgerald ci si imbatte in questa frase: «sono sicuro di essere abbastanza avanti da conquistare un pezzettino di immortalità, se continuo a star bene». Un pezzettino di immortalità? Fitzgerald? L’autore del Grande Gatsby e di Tenera è la notte? Aveva già conquistato la sua parte di immortalità, e ben più di un pezzettino. Ma non lo sapeva e non lo seppe mai. Mentre scriveva The Love of the Last Tycoon la sua stella era talmente in declino che alcuni lettori pensavano fosse già morto. Si adeguò in fretta, morendo per davvero. Spesso mi trovo a sperare che ci sia un al di là da dove gli scrittori defunti possono assistere allo spettacolo del tempo che rende loro giustizia.

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