La turboretorica di Diego Fusaro

“Il nuovo ordine erotico” è un campionario dei difetti e delle mistificazioni del filosofo torinese.

di / 12 ottobre 2018

Copertina di “Il nuovo ordine erotico”

Ci narrò il Pascoli che dentro di noi è un fanciullino che non solo ha brividi, ma lacrime e tripudi suoi, e che la sua voce e il suo sguardo di meraviglia permangono intatti mentre cresciamo. Eccetera. Ci spiegarono più in dettaglio prima Jung e poi Hillman di quell’archetipo, il puer aeternus, legato alla comprensione immediata, alla sensibilità edenica di un mondo senza tempo, prima della caduta; della difficoltà che un simile genio, un Icaro dell’intuizione, ha nel calarsi nella dimensione orizzontale, nel divenire della storia e nelle geometrie razionali. Mentre il suo sguardo sorvola i cieli dello scibile umano ed è in compagnia del Padre, vi è in lui un’oscura diffidenza per ciò che sta sotto – lo ctonio, dove alberga la Grande Madre – ed è percepito come oscuro, invischiante, innaturale. Questa asimmetria, dove la pura contemplazione e l’intuito stentano non appena dallo psichico si passa al relazionale, conduce l’eterno fanciullino a comportamenti bizzosi, eccentrici, persino distruttivi, tali che il genio finisce per offuscarsi, o peggio. Ecco perché Hillman vide quell’archetipo in dialogo con quello del senex. Se i due aspetti non trovano equilibrio sono guai.

C’è nella lingua di Diego Fusaro qualcosa che evoca il dualismo tra senex e puer, ma come scissione o conflitto represso. Ciò che Fusaro mostra nelle apparizioni televisive o sui social può sembrare ridicolo – il ditino alzato per parlare, come a scuola, «Aristotile», la monocorde nenia rossobruna, i composti di «turbo» alla stregua dei Puffi che mangiavano torta di puffbacche e puffavano la qualunque – mentre in realtà è studiato, come per un personaggio del wrestling: un heel o una comedy gimmick che puntano a provocare ed essere derisi, perché un performer muore se il pubblico è impassibile. Ma il personaggio mediatico nella dimensione libro mostra il vero volto. Quello di un puer aeternus che nel divenire adulto ha perso qualcosa di fondamentale per strada, e ora incarna un senex negativo: il bigotto.

Il bigotto aderisce con zelo a un’ortodossia che gli provoca un piacere succedaneo, e lancia strali contro ciò che la offende. Non scende sul terreno della dialettica, piuttosto moraleggia contro ciò che gli appare eretico. La sua però è un’ortodossia solo esteriore, da fariseo. È il prete di provincia che sì, ha studiato molta teologia e filosofia, sa persino citare ampi stralci di Sant’Agostino e Tommaso D’Aquino. Ma poi, chiusi i libri e una volta sul pulpito, non può fare a meno di guardare l’umanità che gli si presenta: vecchie prefiche, mariti e mogli a braccetto sulle panche, ma in guerra nel confessionale, bambini iperattivi che si scaccolano, addirittura gente che osa dormire nella casa del Signore. Nulla di ciò che legge può sanare ciò che avverte erompere sotto la crosta, e che prima o poi lo vedrà sbracare lontano dal pulpito.

Prendiamo dunque Il nuovo libro di Fusaro, Il nuovo ordine erotico – Elogio dell’amore e della famiglia (Rizzoli, 2018), che in quarta recita: «Un manifesto filosofico per capire il presente, combattere la precarietà sentimentale e riappropriarsi dell’etica amorosa, nell’epoca in cui il capitale ha trasformato anche l’eros in merce globale». Il libro dovrebbe denunciare l’attacco contro la famiglia tradizionale e il ruolo del maschio-padre condotto dalle forze del «turbocapitalismo», a braccetto con la «gendercrazia» e il suo «clero» («la Sinistra dell’eroticamente corretto»), che promuove l’abbattimento del dualismo maschile-femminile in favore di «consumisti unisex neolibertini» votati all’accumulo di «plusgodimento». Un ordine instauratosi dopo il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino. Ma la maschera del filosofo, parte facile da reggere nei pochi minuti di un’apparizione televisiva o di un’intervista, o negli spazi di un tweet o di uno status Facebook, non regge lungo le quattrocento pagine di Il nuovo ordine erotico. Ci consegna il sopracitato bigotto sulla scia di derive stilistiche, incongruenze, reticenze, omissioni e toni che oscillano dalla devota osservanza dei Padri filosofi all’acritica denigrazione di ciò che, invece di essere nominato per poi procedere a confutazione, è attaccato con veemenza e malcelato disprezzo.

La maschera già traballa nel titolo, ambiguamente in contrasto col sottotitolo, tanto che l’elogio sembra rivolto a questo fantomatico «Nuovo ordine erotico». È solo il gioco di parole da koinè complottara, che rimanda al «Nuovo ordine mondiale», a permetterci di decifrare il significato. Avrebbe avuto più senso un titolo come «Contro il Nuovo ordine erotico», esplicitando l’opposizione. Siamo già dunque introdotti in un mondo linguistico di contrasti in cui non si danno i rapporti, le relazioni, dove i nemici sono talmente evidenti che non hanno bisogno di essere contestualizzati: basta appellarli dal pulpito perché il pubblico recepisca il messaggio, rafforzando la comunità e distogliendo l’attenzione dai conflitti che la lingua apparentemente copre.

Prendiamo alcuni vezzi del linguaggio fusariano, che estetizza con esiti grossolani e autoparodianti, assecondando piacere personale e sovraeccitazione psichica. Nel Nuovo ordine erotico abbiamo forme desuete o italianizzate dei nomi stranieri, come a nazionalizzare nostalgicamente – facendolo proprio – un passato ideale: «Aristotile», l’assenza di apostrofo tra articolo ed «Hegel», «Carlo Marx». Ciò si ferma grossomodo ai filosofi della tradizione, non ai contemporanei e certo non alle poche citazioni legate agli Studi di genere – troviamo «Butler», non «Giuditta Butler». C’è poi un puntellare i periodi con arcaismi: «vieppiù», «rinunzia», «a tal guisa», «siffatto», «danaro». Vi rientra anche l’abuso del participio al posto della subordinata, sul modello latino («determinantesi nella forma di una fisiologica separazione»; «Con le parole di Tommaso, liberamente riarticolanti»).

Sono stilemi di chi vorrebbe innalzare il registro del discorso, come per un distinto e patriottico signore borghese col panciotto tricolore e l’orologio da taschino, che camminando a testa alta per strada dopo il primo passo inciampa malamente. Al posto di un ramo o di un sasso, l’inciampo avviene su un tripudio di forestierismi, da Azzeccagarbugli cui non basta il solo latinorum per abbindolare il pubblico di Renzi e Lucie. Oltre alle lingue classiche, abbiamo inglese, francese e tedesco, talvolta accompagnati dalla loro traduzione:

«[…] autocelebrandosi compulsivamente e a piè sospinto come panglossiano meilleur des mondes possibiles o come ordo sempiternus rerum»;

«[…] consumato nel fugace spazio dell’hinc et nunc»;

«[…] deve potersi affermare in forma absoluta»;

«Esso si pone realiter […]»;

«[…] la pratica à la page dei mail-order marriages.»;

«[…] governato da leggi e logiche sue (iuxta propria tecnica)».

Sono due direttive di ipersemantizzazione in conflitto tra loro, pur avendo lo stesso obiettivo: lo sfoggio di competenze linguistiche.

C’è poi l’iperattribuzione, che si presenta tanto più il centro del discorso si allontana dai padri della tradizione. Il presente in particolare, e ciò che riguarda il «turbocapitalismo», le sue brutture, vede una liquidità di sostantivi: invece di svolgere un concetto, lo si rafforza per elencazioni o composti accrescitivi. Nella formazione dei termini ricorre la prevalenza del significante, il gioco di parole, fino ai casi limite della rima, dell’assonanza e della paronomasia; stilemi che attenuano o neutralizzano il piano semantico lungo la direzione dell’omofonia, o della sintassi cantilenante, infarcita di accrescitivi («turbo-», «ultra-»).

I sintagmi nominali e verbali abbondano di aggettivi (anche due o tre) o avverbi; i concetti che definiscono Il nuovo ordine erotico si formano per somiglianza linguistica, per derivazione («neolibertinismo», «liberoscambismo», «eroticamente corretto») e successivo accumulo. Se nell’Eden il puer aeternus conosce il nome di tutte le cose, nel mondo dopo la caduta il sentore di corruzione crea sfiducia e sospetto; la voce, che interiore risuona come un canto, all’orecchio risulta un balbettio cacofonico. Nella manipolazione linguistica è espresso ciò che all’intuito è lampante: l’epoca in cui viviamo è corrotta – «postborghese», «postproletaria», «postmoderna», «posterotica», «postfordista», postqualcosa – ed è dominata dal «cosmomercatismo», dal «totalitarismo» (quest’ultimo sempre aggettivato); non si contano poi i rimandi a 1984 di Orwell, da cui Fusaro mutua il fantomatico «Ministero dell’amore». Il pensiero logico fatica a compenetrare ed esprimere, e allora si ha una bulimia espressiva dove le qualità della sostanza sono più importanti della sostanza stessa:

«Alla famiglia l’integralismo economico sostituisce l’utilitarismo erotico»;

«[…] l’altro è svilito al rango di puro oggetto, di merce da cui ricavare plusvalore in ambito economico e plusgodimento in sede erotica.»;

«[…] nel trionfo dello sviluppo della società dell’insocievole socievolezza a cinismo avanzato, in cui l’individuo autocratico e autistico è attore del consumismo e oggetto di una manipolazione totale.»;

«[…] puro godimento individuale e cinico, aprogettuale e utilitaristico, liquido e precarizzato.»;

«È questo l’identikit essenziale del nuovo uomo senza qualità e senza gravità».

Come accennato, in Il nuovo ordine erotico c’è un duplice registro, legato ad aree tematiche: da una parte la Tradizione, che è una massa acritica positiva o comunque dotata di senso, legata al ruolo di uomo e donna, marito e moglie, padre e madre; dall’altra il presente della «gendercrazia» al servizio delle «oligarchie finanziare», dipinto come un totalitarismo i cui aspetti sono privi di qualsivoglia contesto. Confrontiamo un passo, tratto dal capitolo «Nostalgia della Totalità» con un altro tratto dal capitolo «La donna a una dimensione». Il tono professorale del primo sembra appartenere a un’altra persona, se si confronta col tono dileggiante del secondo. Siamo nell’area dell’invettiva da sermone:

«L’amore, dunque, si pone come tentativo della singolarità di raggiungere un’unità che le annulli, ma che le innalzi a una diversa prospettiva, quella del duale: dove l’unità stessa, raggiunta, lungi dall’annichilire l’individualità degli amanti, la potenzia e la porta alla sua pienezza d’essere, innalzandola al grado di una Totalità differenziata a cui si apre l’esperienza duale del mondo».

«Tesa alla produzione di una massa di servi con profilo remissivo e docile, passivo e vittimistico, privi della virilità proletaria (antagonismo, conflittualità, resistenza) e di quella borghese (patriottismo, onore, fedeltà), la svirilizzazione del’uomo occidentale è oggi attivamente promossa dall’oligarchia finanziaria, dal suo clero regolare e secolare e da fenomeni circensi strettamente connessi (Pussy Riot, Femen, girotondi “Se non ora quando?”)».

È ricorrente la denigrazione mistificatrice delle forme di lotta odierne, tutte viste al servizio del «cosmomercatismo» e altre forze oscure, esterne e sovrastanti, senza che venga mai spiegata la natura di questo rapporto, i loro attori, come operano. Ci si limita ad avvolgerli in un’aura funesta:

«La variante liberal della donna in carriera coesiste, come espressione opposta del medesimo fenomeno, con la figura anarchica e new global del femminismo alla moda delle bad girls antiborghesi e ultracapitalistiche, tra le quali, per onor di cronaca, si possono rammentare le Pussy Riot, le Femen e numerose altre cubiste del mondialismo […]».

Ciò naturalmente fa presa nella misura in cui il lettore si immedesima nei toni e negli atteggiamenti. Si oscilla così tra bias di conferma, argomenti fantoccio e fallacia di autorevolezza, talvolta richiamandosi a fantomatiche statistiche:

«I dati disponibili dimostrano che anche le donne, e in quote non marginali, sono protagoniste attive della violenza, tra loro ma anche a danno degli uomini. Ciò impone una volta di più l’esigenza di prendere congedo dalla «vuota profondità» delle attribuzioni manichee di genere […], per tornare a ragionare in termini di responsabilità individuali, a prescindere dal sesso di appartenenza.»

Questo dualismo acritico tra passato idilliaco, dove ancora era possibile l’esperienza di «Verità», e il presente apocalittico presta il fianco a sonori sfondoni, debolezze di pensiero, o concetti che alla fine provocano persino imbarazzo allo sguardo critico. Abbiamo per esempio un ipse dixit degno del miglior Simplicio:

«La sessualità separa l’uomo dalla donna e li rende parti diverse della medesima unità, o se si preferisce, espressioni differenti del genere umano, come anche la Bibbia ci ricorda.

Il fatto che la donna sia “ricavata” dalla costola dell’uomo, è, al di là della rappresentazione religiosa, la prova a suffragio della comune e uguale appartenenza dei due sessi alla razza umana, oltre che dell’ineludibile differenza ontologica che li caratterizza: e che è, per ciò stesso, il fondamento del genere umano».

Va da sé che citare nel 2018 la Genesi a sostegno dei ruoli di uomo e donna nella coppia ha senso solo in The Handmaid’s Tale. Anche perché la Genesi è quel libro in cui la specie umana ha origine da Adamo ed Eva e dai loro figli – non a caso si omette il nome della moglie di Caino. Quindi, per la stessa logica, possiamo citare la Bibbia per fare apologia dell’incesto.

Altro esempio è la denigrazione della nonviolenza, in apparenza marginale rispetto al tema del libro, ma coerente rispetto a un’idea di virilità più spartana che ateniese:

«Così deve anche essere inteso, inter alia, l’oggi imperante “pacifismo” delle sinistre arcobaleno: che, nell’oblio integrale della lettera e dello spirito di Gramsci e di Lenin, al conflitto del Servo in cerca della propria emancipazione hanno sostituito la belante e impotente via dell’accettazione vittimistica delle ingiustizie; e alla lotta contro l’imperialismo made in Usa hanno preferito l’elogio salmodiante di quella “non violenza” che, di fatto, non è se non il riconoscimento del monopolio della violenza dei dominanti e la convergente negazione, per i dominati del diritto di resistere, di difendersi, di lottare e di vim vi repellere».

Ora, a parte che «di fatto» si scrive «nonviolenza», o al limite «non-violenza» (per motivi noti a chiunque mastichi minimamente il concetto), da notare in primo luogo l’uso superfluo delle virgolette: marcano distanza da concetti avversati, non riconoscendo loro una qualsivoglia plausibilità. Premesso ciò, l’autore ha della nonviolenza un’idea approssimativa e storicamente falsa. Eppure la nonviolenza si basa sulla pietas, da lui stesso decantata in precedenza, e sull’approcciare la dialettica Servo/Padrone senza i cavalli di battaglia cari a Fusaro – lo schema desueto Destra/Sinistra, la critica all’«antifascismo in assenza di fascismo» (per cui CasaPound dovrebbe essere un club di cosplayer, si suppone). Eppure Tolstoj, in Il regno di Dio è in voi basa il cristianesimo come filosofia morale a partire dal “Discorso della montagna”, dove il porgere l’altra guancia e la non resistenza al male sono interpretati come strada da percorrere attivamente. Propugna persino la disobbedienza civile radicale (rifiuto di pagare le tasse) contro gli Stati che attuano politiche repressive e guerrafondaie. Capitini elabora il concetto – forse troppo femminiello per Fusaro – di Persuasione, di verità interiore e dei mezzi necessari per portarla fuori, come azione politica: lo fa in opposizione a un presente totalitario, l’Italia fascista, tanto che il suo Elementi di un’esperienza religiosa (1936) è un testo chiave dell’antifascismo. La stessa lotta nonviolenta contempla azioni tutt’altro che pacifiche come il sabotaggio e il boicottaggio, e certo il passo sopracitato potrebbe avere senso in un mondo dove non è vissuto Nelson Mandela, che proprio nell’abbandono del vim vi repellere e nell’abbracciare la nonviolenza è riuscito a sconfiggere in Sudafrica l’apartheid – tra l’altro dopo il 1989, anno in cui si sarebbe insediato il nuovo ordine erotico. E che dire di quel Socrate così caro all’autore? La scelta di bere cicuta non è allora una «accettazione vittimistica delle ingiustizie»?

Venendo ai contenuti chiave del libro, ci si trova costretti a stare il più possibile lontani dagli ampi sproloqui su «gender» e «ideologia gender» per una ragione precisa. L’autore omette o mistifica le fonti dirette di questa ideologia, non esplicita un singolo passo a corredo; al limite infila frasi estrapolate per sostenere il proprio discorso. Evidentemente finge di non sapere che il «pericolo gender» e «l’ideologia gender» nascono e prosperano nell’estrema destra e nei cattolici conservatori.

Eppure nelle citazioni sono più presenti un De Benoist (ideologo della Nouvelle Droite), uno Scianca (responsabile nazionale cultura di CasaPound e direttore del Primato Nazionale) o il caro vecchio Evola di una Butler o una Haraway. Un discorso critico su certi contenuti avvalorerebbe perciò la rimozione mistificatrice a monte, che spaccia per obiettività aree ideologiche ben precise, intanto che denuncia il «pensiero unico» e le sue fantomatiche reprimende.

Ora, il puer aeternus avrà i suoi motivi per essere debole in storia, e usare un borghese prussiano, per forza di cose scarso in antropologia, per teorizzare sull’amore e forma naturaliter della famiglia – in «natura» esiste la poligamia patriarcale e matriarcale, tanto per dire. Ma, a proposito di storia, un giorno i suoi tribunali ospiteranno la grande editoria italiana – Bompiani, Feltrinelli, Einaudi, Rizzoli – e a questi imputati eccellenti sarà chiesto: «In nome di cosa avete sdoganato il rossobrunismo nei vostri cataloghi, per mezzo di un uomo tutto sommato trascurabile, che nemmeno ha avuto l’astuzia di dissimulare la propria natura, un uomo cui già bastava il risalto del Carnevale mediatico imbastito da televisione, stampa e radio?». Si spera che gli imputati, quel giorno, abbiano una risposta migliore del furbesco: «Eh, però vendeva», se non altro perché la Storia avrà gioco facile nel replicare: «Appunto».

 

(Diego Fusaro, Il nuovo ordine erotico, Rizzoli, 2018, pp. 416, euro 19)
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LA CRITICA

Lecito spacciare propaganda per filosofia, meno lecito pretendere di essere presi sul serio perché nel farlo si rimanda copiosamente a Platone, Marx, Gramsci o Hegel, tenendo di fronte alle critiche un contegno vittimista da autore censurato, manco si fosse pubblicato un samizdat.

VOTO

2/10

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effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

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