Le radici profonde del perturbante
Una riflessione su “Casa di foglie” di Mark Z.(ampanò?) Danielewski
di Martina Mantovan / 14 gennaio 2020
A vent’anni dalla prima edizione statunitense, rivede la luce, dopo alcune peripezie editoriali, una nuova traduzione di Casa di foglie di Mark Z. Danielewski, a cura di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti per 66thand2nd. Dopo anni di creazione di culto libresco e la nascita di un mercato falsario, Casa di foglie torna con una cura per il dettaglio che rende finalmente fedele e completa l’opera.
«Questo non è per te».
Inizia con un avviso alquanto esplicito, questo libro. Un’iscrizione che può passare inosservata; meno perentoria dell’ammonizione posta sulla bocca dell’inferno dantesco, ma altrettanto assertiva da fungere da memento. Poiché a dischiudersi dopo la seconda pagina non vi si trova l’orrore demoniaco e soprannaturale, il terrore dell’alterità misterica e misteriosa, ma le porte di una casa.
A introdurci è il racconto del ritrovamento da parte di John Truant, giovane losangelino tutto sesso droga e alcol, di un corposo manoscritto che Zampanò, un vecchio cieco a cui subentra nell’appartamento, ha lasciato, dopo il decesso, in merito a un docufilm di un famoso reporter: The Navidson record. È questo il titolo del documentario attorno a cui gira tutta la speculazione e l’analisi dei testi raccolti: un film girato da Will Navidson, noto premio Pulitzer per la fotografia, nell’ingenuo intento di documentare l’esperienza condivisa di tutta la famiglia del trasferimento in una nuova casa.
«Proprio per questo motivo vale la pena tornare a Navidson seduto in veranda, con lo sguardo fisso e le dita sottili strette intorno a un bicchiere di limonata. “Ho pensato che sarebbe stato bello vedere le persone trasferirsi in un posto e iniziare ad abitarlo” dichiara con serenità. “Stabilirsi, mettere radici, interagire, magari iniziare a capirsi meglio a vicenda. Personalmente vorrei solo creare un piccolo avamposto per me e per la mia famiglia”. Una riflessione alquanto innocua e laconica, ma che tuttavia contiene una parola particolarmente irritante».
Casa che è l’emblema per eccellenza del luogo in cui risiede la propria disposizione, in cui ha fondamento la possibilità dell’apertura verso il mondo: l’orizzonte in cui dimora l’essere. Nella casa dei Navidson tutto ciò viene sistematicamente negato e sovvertito, divenendo invece la metafora incarnata dell’illimitato e dell’inconoscibile. Casa, che da luogo delle risate e dei giochi, diviene il megafono di un silenzio così clamoroso da competere con il deserto di senso, il D.I.O, assente in La scopa del sistema di David Foster Wallace.
A innescare il ribaltamento è un dettaglio, un minuscolo dettaglio, una discrepanza quasi impercettibile tra dentro e fuori, tra l’interno e l’esterno della casa: uno scarto di 7 millimetri apparentemente impercettibile si trasforma nell’impulso che spalanca le porte all’Unheimlich, il perturbante.
Tale spaesamento che deriva è il sintomo tangibile della percezione di non-essere-più-a-casa e dello sconfinamento della casa nei domini inviolabili dell’io.
Il perturbamento tipico della weirdness di Danielewski prende le forme di un’architettura sinaptica, per cui il rapporto tra psiche e spazio si compenetrano e si alterano a vicenda, in una metamorfosi eternamente impossibile. La casa diventa un luogo disforico: ciò che si spalanca di fronte agli occhi e alle camere dei Navidson è l’insostenibile realtà di un orrido smisurato.
«Un conto è l’impossibile considerato come concetto puramente intellettuale: non rappresenta un grande problema quando si osserva una stampa di Escher e poi tranquillamente si chiude il libro. Diverso è se si ha davanti una realtà fisica che mente e corpo non possono accettare».
Casa di foglie ha la stessa densità narrativa di un buco nero: autore, scrittori, reporter, testimoni, personaggi e lettore finiscono risucchiati in un campo gravitazionale narrativo che porta tutti a scorgere l’oscurità più abissale e invita a prendere dimora e coscienza delle radici più profonde e oscure del proprio essere. È con tale arcano fondamento che la casa pone a confronto chi varca la sua soglia, così come Danielewski, scrittore deus ex machina o personaggio sopraffatto anch’egli, trascina il lettore in un vortice dove fiction, autofiction, menzogna, documenti e reperti emergono e galleggiano sul medesimo piano valoriale.
Il problema dell’autenticità è subito messo in discussione dal medium che si presenta come reale protagonista, fulcro speculativo della narrazione tutta: il documentario di Will Navidson girato all’interno della propria casa. È l’essenza stessa della registrazione su Vhs a porre il quesito centrale di ogni tipo di rappresentazione, trasposizione, narrazione del reale: il rapporto tra realtà e menzogna, il grado di aleatorietà semantica di ogni immagine manipolata.
Mentre in Infinite Jest di David Foster Wallace era la visione della Vhs a creare la dipendenza, una dipendenza squisitamente solipsistica (coerentemente con il suo autore), quella di Casa di foglie è invece una dinamica concentrica: il bisogno di esplorare i meandri più oscuri della casa si propaga da Navidson sino al lettore, coinvolto anch’egli in una pratica di speleologia esistenziale dai margini torbidi.
«Sempre più spesso vengo sopraffatto dalla stranissima sensazione che ogni cosa sia ribaltata, e con questo voglio dire – per ribadire il non-così-ovvio – che senza di lui io morirei. Arriva un momento in cui all’improvviso tutto mi sembra eccessivamente lontano e confuso, la percezione che ho di me è derealizzata e spersonalizzata, sono talmente disorientato che mi convinco – ed è un esempio di convinzione delle più assurde – che questa tremenda sensazione di essere in qualche modo legato all’opera di Zampanò implichi qualcosa che non può essere, ossia che questa roba ha creato me; quindi non io lei, ma lei me, dove me non è altro che il prodotto di un’altra voce, che si intrufola tra le pieghe di ciò che perfino adesso giace lì, spalancato, si impossessa di me con storie che non dovrei mai riconoscere come mie; mi inventa, mi definisce, mi dirige finché ogni associazione di idee che potrei reclamare come mia – da Raymond a Tippete, da Kyrie ad Ashley, tutte le donne, perfino lo studio e il mio monolocale e il resto – non si riduce più a niente; mi costringe ad affrontare il sospetto più terribile che ci sia, che tutto questo sia semplicemente inventato e, peggio ancora, non da me e neanche da Zampanò.
Però da chi non ne ho idea».
La perdita dell’identità appare come logica conseguenza di un’oscurità che è il distillato più puro dell’assenza. Ovunque è baratro e replica infinita di nero: le coordinate spaziotemporali generano il labirinto. E all’interno di ogni labirinto vi è sempre un Minotauro, vergogna e pensiero rimosso di un padre.
Così la peregrinazione del lettore avviene all’interno del testo, della gabbia del testo, quindi del dedalo che Danielewski ha costruito per smarrirlo e guidarlo, attraverso un filo sottilissimo che mantiene la comunicazione tra autore e lettore, tra la realtà esterna al libro e la finzione all’interno del libro, delle pagine, della casa. La dualità intrinseca al labirinto, ovvero la dicotomia tra chi si trova all’interno, l’autore, e chi osserva dall’esterno, il lettore, decade rispetto alla Casa (di foglie) dal momento che nessuno è in grado di vedere il labirinto nella sua interezza.
Danielewski guida quindi il lettore in una scrittura itinerante: l’occhio viene portato a seguire gli spostamenti sulla pagina come se fosse uno schermo, come costretto ad accompagnare i movimenti di un’azione filmica.
Non è metaforico perciò definire la lettura di questo libro immersiva, poiché si tratta di un testo decisamente postmodernista nella struttura, ed ergodico negli espedienti tipografici, che rendono alla perfezione il ritmo serrato, incalzante, in un’accelerazione della caduta verbale nella profondità della follia.
«Dentro di me non si agitava nulla di simile alla pietà. Scivolavo lungo la parete del mio abisso interiore».
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