Grazie, Kobe

di / 31 gennaio 2020

(Per quanto l’accusa di stupro nei confronti di Kobe Bryant sia una questione importante nella vita di un personaggio del genere, non entrerò nello specifico, cercando di parlare di cosa lui sia stato per me come giocatore di pallacanestro).

Non so contro chi fosse, ma parliamo di una ventina di anni fa. Giocavo per una squadra di Roma. Contro un’altra squadra di Roma. Avevo in mano la palla del possibile pareggio. O addirittura della vittoria. Eravamo sotto di due. Una di quelle partite punto a punto, quelle partite stressanti in cui devi essere lucido in attacco, ma soprattutto devi esserlo in difesa. Ricevo da un mio compagno dopo esser passato dietro a un blocco. A ripensarci, oggi, mi viene da sorridere con una dose enorme di malinconia, e non potrebbe essere diversamente.

Ho sempre avuto una mia tecnica di tiro, la riconoscevo e la riconosco tuttora. La immaginavo mentre andavo a scuola. Mentre mangiavo. Mentre andavo agli allenamenti. Cercavo come poterla migliorare anche solo costruendola mentalmente. Quando vedete certi ragazzini che sembrano pazzi mentre palleggiano per strada con una palla invisibile o che si alzano mimando un tiro, cosa pensate stiano facendo? Cercano di migliorare. Perché la pallacanestro è un demone bellissimo che si irradia sotto pelle e che influenza le tue scelte quotidiane, per cui faresti qualsiasi cosa, anche  palleggiare per strada con una palla invisibile o mimare un tiro in mezzo alla strada.

Esco da quel blocco, quindi. E l’immaginario enorme che Kobe Bryant aveva già plasmato nelle teste di milioni di ragazzini si palesa in maniera feroce nella mia. Invece di tirare come ho sempre tirato, provo a farlo tipo lui. Sì, tipo Kobe Bryant. Quanta presunzione, ma quanta ingenuità. L’uscita da quel blocco è un’occasione troppo grande, un buzzer beater da cinque metri. Esco bene, piede sinistro, piede destro, mi alzo, torsione in aria, corpo leggermente piegato all’indietro, gamba destra in avanti. Proprio tipo Kobe. Dio mio, sono Kobe! La mia percezione è esattamente quella. Nella mia testa sono una copia di Bryant. Anzi, sono proprio Kobe Bryant!

La palla lascia le mani e va verso il canestro.

Ferro.

Partita persa.

Nessuno chiaramente si è accorto di quanto fosse successo in quei pochi istanti. Sono sicuro che quel tiro lo ricordo solo io e probabilmente non sarebbe cambiato nulla se avessi tirato come ho sempre fatto. La palla avrebbe preso comunque il ferro, chi lo sa. Non importa. Quello che importa è che solo ora capisco cosa sia stato quell’istante. Solo l’assenza di Kobe Bryant, oggi, mi ha fatto capire cosa sia stato lui per me e probabilmente per un paio di generazioni di giocatori di basket sparsi lungo tutto il mondo.

Cosa ha spinto un ragazzino di quindici anni, in quel preciso momento, a rischiare in quel modo? Perché la tecnica di tiro è qualcosa con cui hai a che fare ogni giorno. È un movimento che devi costruire, migliorare, perfezionare quotidianamente. Devi tirare, tirare, tirare. Devi passare ore in palestra. E quando hai raggiunto una buona idea di come tu possa esprimerti in questo sport attraverso questo gesto, il tiro, e puoi manifestarlo durante una partita, lasci perdere tutto per emulare qualcosa che non sarai mai. Per godere interiormente di quello che stai facendo. Perché?

Quel ragazzino è stato spinto dal fatto che Kobe Bryant è uno di quei momenti fondamentali della storia dello sport. Perché lui non è esclusivamente un giocatore di pallacanestro. È una fase storica, con lui c’è un prima e un poi. È la Storia che si manifesta in una delle sue molteplici forme. Su di me, in quel momento, ha preso la forma di quel tiro.

Io ci ho provato con la pallacanestro. Per una fase della mia vita è stata la vita stessa. E ho passato gli anni del mio maggior innamoramento di questo sport sotto i colpi di Kobe Bryant. Era un riferimento iconico, perché incarnava al cento per cento l’idea di simbiosi tra pallacanestro ed essere umano, tanto da essere tranquillamente due concetti interscambiabili. Era un fenomeno. E io, anche senza un briciolo del talento di Kobe Bryant, avevo la necessità materiale e spirituale di un modello del genere per costruire la mia idea di vita-pallacanestro.

Kobe Bryant, per dirla breve, è stato quello che è riuscito a reggere il confronto con colui che è stato/che è/che sarà la pallacanestro: Michael Jordan. Un Dio che lascia l’eredità dell’esistenza a un altro Dio.

Vent’anni da quel giorno. Da quel mio tiro, da quella stramba e istintiva voglia di essere Kobe Bryant. Vorrei dire a quel quindicenne qualcosa, ma finirei per dargli solo una pacca sulle spalle. Perché in fondo lo capisco. Forse avrei fatto la stessa cosa, oggi.

Vent’anni da quel momento: un paletto sulla scansione del tempo, degli anni, della vita. Kobe Bryant alla fine ha vinto cinque titoli, è stato un difensore incredibile e un attaccante stratosferico, Mvp della stagione una volta, Mvp delle finali due volte, nel miglior quintetto undici volte, dal ’98 fino a fine carriera ha sempre partecipato all’All Star Game, ha avuto quattro figlie, ha vissuto un’accusa di stupro, si è ritirato, ha fatto tante cose che non saprò mai ed è morto.

Il modo lo sappiamo, in elicottero tra i monti della California, insieme alla figlia Gigi e a altre sette persone. Le prime immagini dei resti di quell’elicottero rimbombano ancora in maniera irreale davanti ai miei occhi. Perché quando la sensazione che non fosse un’allucinazione collettiva ha iniziato a farsi sempre più ingombrante nella mia testa, sentivo che una parte di me, quella parte che è rimasta attaccata alla pallacanestro in maniera così viscerale, che ha visto in Kobe Bryant qualcosa di più di un semplice giocatore da ammirare, quella parte ha finito di pulsare.

Ho smesso di giocare poco più che ventenne. Dopo la morte di Kobe Bryant, come fosse la cosa più naturale del mondo, ho smesso di giocare per la seconda volta.

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