This place doesn’t move me

"Man Alive!", viaggio nel mondo e nel suono di King Krule

di / 11 marzo 2020

Immergersi. Lasciarsi invadere, senza pretendere di capire.
È questo che è necessario fare per approcciare nel migliore dei modi Man Alive!, ultimo disco di Archy Ivan Marshall (1994), in arte King Krule.
Giunto al terzo disco, dopo l’esordio scoppiettante di 6 Feet Beneath the Moon (2013) e l’ambizioso The OOZ (2017), il giovanissimo quanto carismatico cantautore londinese deve dimostrare di saper gestire i tempi lunghi, provando di non essere una meteora.
Man Alive! giunge, in questo senso, come una piacevolissima conferma.

King Krule riprende e ribadisce con forza la sua idea di musica e di composizione, e dunque la sua visione del mondo, che, pur continuando a muoversi all’interno di un solco ben definito, è effettivamente parecchio evoluta nel corso degli anni: basti pensare al fatto che Marshall, nel frattempo, è diventato padre, proprio durante la lavorazione del disco.
Ciò che convince, in King Krule in generale e in Man Alive! in particolare, è innanzi tutto proprio questa coerenza nel percorso, questa unità d’intenti che si riflette inevitabilmente in una eccezionale compattezza musicale: alcuni potrebbero definirla addirittura ripetizione, monotonia, ma certo è che l’idea di musica di Marshall è nuova, ancora fresca e dunque buona per essere sfruttata. E soprattutto, ciò che è più importante, è un’idea che funziona.

Man Alive! Ha un suono complessivo, come una nota di fondo sulla quale è necessario sintonizzarsi per poterne apprezzare l’ascolto.
Sinesteticamente, si può parlare di musica che puoi vedere: il disco è il correlativo oggettivo di Marshall, della sua mente, del suo stato d’animo e dell’ambiente in cui si muove.
Ogni nota, ogni suono contribuisce a creare un’atmosfera notturna e plumbea: simile sotto ogni aspetto a quella Londra grigia, fumosa, probabilmente bagnata di pioggia sulle cui strade ci pare, ascoltando il disco, di veder camminare King Krule.
Marshall si muove per questo paesaggio sonoro come un crooner stordito, storpiato fin dal nome – infatti King Krule è la storpiatura di King Creole, vecchio film con Elvis Presley: ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio sonoro, mentale e geografico insieme, costellato di rumore, perché il rumore è importantissimo, più importante della musica certe volte, perché il rumore sa di vero.
Così, la musica si fa strada tra sirene di ambulanze, automobili che passano, chiamate telefoniche, botti, schianti, urla, scampoli casuali di conversazioni.

Tutto diventa parte di questo arrangiamento apparentemente caotico e sconnesso; il direttore dell’orchestra di Man Alive! è un istrione – volutamente – solitario e – altrettanto volutamente – delirante, fuori dal coro: Krule ricorda, nell’atteggiamento e nella postura, certi frontman più che carismatici, da Joe Strummer a Ian Curtis. Accostamenti, questi ultimi, non casuali nemmeno dal punto di vista musicale: Man Alive! infatti pullula di riferimenti al post-punk e alla darkwave dei Joy Division, e il cantato di Marshall, così spesso sporco, con le parole che vengono sputate fuori, rimanda direttamente all’attitudine Clash/Ramones.

Queste, che possono essere considerate tra le influenze principali disseminate all’interno del disco, contribuiscono a creare una bolla sonora terribilmente “nera”, come il petrolio più vischioso, dalla quale è impossibile districarsi: l’ascoltatore è, sin dall’apertura di Cellular, spaesato ma ipnotizzato, catturato dal flusso e dalla capacità affabulatoria, da vero story-teller, di Marshall.
Questo fascino, questa abilità nel convincere chi ascolta a lasciarsi circondare dalla rete dei propri suoni, ci permettono di accostare King Krule a due pezzi da novanta “maledetti”, e proprio per questo affascinanti, come Tom Waits e Nick Cave.

Man Alive! Suona, nel suo quasi paroliberismo dadaista che recupera brandelli di conversazioni al supermercato – come accade in “Supermarchè” –, inaspettatamente vicino alle prime uscite di Cave con i neonati Bad Seeds, quelli di “From her to eternity”.
D’altro canto, il tappeto di batteria – che oscilla dagli echi new wave e post-punk, come in “Cellular” e in “Comet“, ai beat trip-hop di “Stoned Again” – e le linee di basso, allucinate e pervasive, lasciano però spesso lo spazio a piccole feritoie di “luce sonora”: sono i fiati, quelle tremule linee di sax che emergono dalla nebbia, e che ricordano a chi ascolta che il jazz fa innegabilmente parte del bagaglio di influenze di King Krule.

Nei confronti del jazz e dei suoi strumenti Marshall adotta lo stesso approccio “decostruzionista” che era stato, a suo tempo, proprio del Tom Waits di Small Change, Foreign Affairs o Swordfishtrombones. Il sax arriva a tessere una tela sottile di melodia quando meno ce lo si aspetta, come nella coda di “Stoned Again“, o si innesta fino a sostituirle, insieme al piano, sul tappeto di tastiere della stupenda “Theme for the Cross” – uno dei rari momenti di (relativa) quiete, di tregua dalla sezione ritmica –, dove si fonde alla perfezione con la voce effettata e riverberata di Marshall, che sembra uscita dritta dritta da un disco di dub inglese in stile Burial o Tricky.
Ma è stato solo un attimo: subito dopo il sax ed il piano spariscono, sovrastati e sostituiti dal rumore del traffico, le macchine che passano, voci per la strada. Si torna in città, e infatti si torna alla ritmica beat-basso ipnotica di “Underclass“, che fa pensare ai Massive Attack che campionano delle jam sessions registrate in un jazz club pieno di sigarette accese.

Le canzoni trascolorano l’una nell’altra senza soluzione di continuità, i suoni si muovono come la risacca, attraverso giunzioni tessute dalla linea di basso o dai rumori di fondo: una risata che si trasforma in chitarra distorta e dissonante in “Energy Fleets“, una sirena che si fa tappeto di synth all’inizio di “Please Complete Thee“, con la cantilena di Marshall che prende il sopravvento e conclude Man Alive! con una disperata richiesta d’aiuto, di comprensione, affetto, amore – richiesta nei confronti di una ragazza, ma poi di chiunque di noi.

Dopo averci fatto entrare nel suo mondo (sonoro) ovattato, fatto di sprazzi (melodici) che lottano per venire alla luce, Archy, spogliatosi di ogni carisma e narcisismo, canta: «This place doesn’t move me / Everything just seems to be numbness around / This place doesn’t move me / Everything just constantly letting me down».
Quattro versi semplicissimi, per riassumere e chiudere circolarmente un disco che è tutto un mondo.

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LA CRITICA

Man Alive è un viaggio ipnotico, un flusso ovattato ma costante dove si incrociano linee e suggestioni musicali apparentemente inconciliabili, dal jazz al post-punk al rumore del traffico. Dirige l’orchestra, magistralmente: King Krule.

VOTO

8,5/10

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