Il coraggio di fuggire dalla propria storia

di / 9 maggio 2020

Unorthodox recensione

Per capire fino in fondo il senso di alienazione di Esty, la giovane protagonista di Unorthodox, miniserie in quattro puntate disponibile su Netflix da marzo 2020, basta arrivare a metà del primo episodio. In un giorno d’estate sulle sponde del Großer Wannsee, uno dei quattro laghi di Berlino, Esty è l’unica vestita. Quando decide di farsi il bagno si toglie solo il maglioncino e le calze ed entra in acqua con ancora addosso una maglia a collo alto e la gonna lunga. Solo quando è lontana dalla riva si toglie la cosa che più di tutte la nasconde al mondo: la parrucca.

Esty, diminutivo di Esther, è una ragazza di diciannove anni proveniente dalla comunità ebrea chassidica di Williamsburg, a New York. Il chassidismo applica in maniera ultra-ortodossa la dottrina della Torah, con una serie di fortissime limitazioni per i suoi membri: regole rigide sull’abbigliamento, niente accesso alla tecnologia, chiusura al mondo esterno. Per le donne, in particolare, valgono i dettami più duri, come il divieto di ascoltare e suonare musica, di leggere i testi sacri, di un’educazione scolastica tradizionale e di mostrare i propri capelli, tagliati corti e coperti sempre da parrucche.

Dopo aver sposato in un matrimonio combinato il giovane Yanky, Esty sente crescere sempre di più una frustrazione che già aveva iniziato ad avvertire. A pesarle più di tutto è l’opprimente presenza della famiglia del marito e l’aspettativa angosciante che lei adempia in fretta al suo ruolo di donna e di moglie. Da qui nasce la decisione di fuggire, verso la Germania, come sua madre aveva fatto anni prima.

Unorthodox è basato sul libro di memorie del 2012 di Deborah Feldman, ebrea newyorkese in fuga come la protagonista della serie. Le due autrici Anna Winger e Alexa Karolinski hanno guardato con attenzione alla comunità chassidica cercando di rappresentarla  senza pregiudizi. È incredibile, dall’esterno, vedere la rappresentazione di un mondo così arretrato e misogino secondo i canoni contemporanei all’interno di una delle città più moderne e vitali al mondo.

Il merito della serie è proprio quello di riuscire a rappresentare il dolore delle scelte di Esty. Se è facile leggere Unorthodox come una storia di rinascita – in cui il bagno nel Wannsee ha una chiara funzione simbolica di battesimo –, non va sottovalutata la riflessione ampia, e più profonda, sul concetto di appartenenza.

L’appartenenza è un legame viscerale, a tratti invincibile, spesso doloroso. Esty si strappa dalla sue radici con paura per lanciarsi in un mondo di cui non conosce nulla, in cui non sa come camminare. Per liberarsi dalla sua comunità ha bisogno di trovarne una nuova: la musica. E per raggiungere la liberazione finale, nella scena più potente della serie di cui non riveliamo nulla, trova la forza nella sua tradizione che le è negata solo perché donna.

Non è solo Esther a combattere con l’appartenenza. Anche il timido e debole Yanky sente il richiamo di un’altra vita possibile. Anche il cugino Moishe, incaricato di riportare la ragazza negli Stati Uniti per espiare alle sue colpe di fedele imperfetto, lotta con il legame che lo opprime e di cui non vuole liberarsi.

Esiste un piccolo filone cinematografico dedicato alle comunità ebraiche ortodosse di cui fanno parte film come Gigolò per caso di John Turturro e Disobedience di Sebastian Lelio (tratto da un romanzo di Naomi Alderaan). Netflix ha introdotto nel suo catalogo anche Shitsel, una serie israeliana con toni di commedia nera, e One of us, un documentario su tre ebrei “evasi” da Williamsburg.

Unorthodox, come Disobedience, riflette soprattutto sul ruolo delle donne e sulla loro liberazione da una società che di fatto le tiene prigioniere di un passato dispotico. Lo fa, soprattutto, grazie alla protagonista, la giovane attrice israeliana Shira Haas, che riesce a comunicare con il corpo tutto il conflitto psicologico di Esty. Come quando galleggia nel Wannsee, sospesa tra due mondi e due tempi, il suo passato e il suo futuro.

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