Tutto ciò che ancora esiste è semplicemente ciò che è rimasto

“Inventario di alcune cose perdute” di Judith Schalansky

di / 11 maggio 2020

Copertina di Inventario di alcune cose perdute di Schalansky

«Mentre lavoravo a questo libro la sonda spaziale Cassini si disintegrò nell’atmosfera di Saturno; il lander marziano Schiaparelli si schiantò sul roccioso paesaggio color ruggine del pianeta che avrebbe dovuto analizzare; un Boeing 777 scomparve senza lasciare tracce mentre volava tra Kuala Lumpur e Pechino; a Palmira vennero rasi al suolo i templi di Bel e Baalshamin, antichi di duemila anni, la facciata del teatro romano, l’arco di trionfo, il tetrapilo e parti del colonnato».

Judith Schalansky, quarantenne scrittrice e designer tedesca, inizia con un lungo elenco di cose appena scomparse la nota che in Inventario di alcune cose perdute (nottetempo, 2020) precede la prefazione.

Conosciuta soprattutto per il suo Atlante delle isole remote, un bestseller in Italia pubblicato da Bompiani e venduto finora in trentamila copie, in questo volume elegante e ingegnoso dal genere impuro – un misto di memoir, saggio, catalogo e novella –, erige un monumento a dodici cose scomparse fra elementi naturali e opere dell’uomo in tempi epici o ben concreti e in circostanze immaginate o testimoniate. Come a dimostrare che è possibile rimpiangere o piangere non soltanto quello che ci manca perché è stato perduto lasciando indietro una traccia qualsiasi, quindi la consapevolezza di essere stato, ma anche ciò della cui esistenza non ci è rimasto nulla, ma che percepiamo come probabile esistenza nel passato.

«Il mondo in sé è, per così dire, l’immenso archivio di se stesso – e tutta la materia animata e inanimata sulla Terra è il documento di un immane e oltremodo laborioso sistema di scrittura, pieno di tentativi di trarre insegnamenti e conclusioni dalle esperienze passate».

Judith Schalansky è nata a Greifswald, una cittadina della Pomerania sul mare Baltico, che diede i natali anche a uno dei pittori tedeschi più apprezzati: il romantico Caspar David Friedrich. Rappresentante del “paesaggio simbolico”, dipinse quel Viandante sul mare di nebbia che restituisce lo spirito di questo libro: uno sguardo in un altrove che vede e può raccontarci in immagini solo il viandante di Friedrich e con le parole solo Judith Schalansky. La quale in questo libro dedica infatti una storia poetica anche a Greifswald, al suo porto.

Inventario di alcune cose perdute è un libro organizzato con molta cura: la lunga prefazione dell’autrice ne spiega le ragioni e la filosofia, i capitoli sono corredati di inserti grafici e introdotti con un asterisco e una croce che narrano la nascita e la morte dell’oggetto ricordato. Dopodiché giunge la narrazione, che a volte è strettamente legata allo smarrimento, altre volte si tratta invece di un excursus, l’oggetto comunque fedelmente rievocato è quasi un pretesto per un racconto che può portarci anche lontano.

Judith Schalansky è munita di tutti i mezzi necessari per un intrattenimento scientifico, storico e letterario di eccellente livello. Dà dimostrazione di una preparazione che sfiora l’inverosimile, padroneggia più stili e linguaggi dando più volte l’impressione di volersi mettere alla prova, superandola sempre; come per confermare di essere in grado di usare tutte le chiavi narrative con disinvoltura, ovvero se in qualche caso lo stile è aspro lo è per scelta, e se è ridondante lo è per mostrare un lessico fin troppo vasto.

Queste dodici storie non costituiscono un filone, non vi è uniformità né nei temi né nella forma, l’unico denominatore comune è il principio di base che ha guidato Judith Schalansky, ovvero mettere insieme un repertorio, un catalogo non sentimentale eppure a tratti addirittura molto coinvolgente, e sfoggiare una bravura impressionante in tutto quello che tocca. In ogni caso questo libro è una delle creature stampate più originali oggi in circolazione, frutto di una mente che già con le precedenti produzioni ha saputo stupire.

Corro il rischio di suonare contraddittoria, in particolare dopo la fila di lodi appena pronunciate, ma proprio tutta questa bravura, questa capacità di ricerca, quest’attitudine di mettere in fila cose fra le più disparate, di legarle e di fare nodi invisibili, questo talento scientifico e letterario, insomma quest’insieme alla fine crea un effetto debordante, l’impressione di aver fatto una magnifica scorpacciata che però lascia dei postumi. Quindi Inventario di alcune cose perdute è un pasto luculliano da consumare a piccole dosi: un capitolo alla volta.

 

(Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, trad. di Flavia Pantanella, nottetempo, 2020, 258 pp., euro 19, articolo di Andrea Rényi)

 

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