Il punto di vista dei sommersi

“Un piede in paradiso” di Ron Rash

di / 14 settembre 2021

Copertina di Un piede in paradiso di Rash

A proposito della pubblicazione di Principianti di Raymond Carver – la versione postuma della raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, epurata dalle pesanti cesure dello storico editor Gordon Lish –, Alessandro Baricco affermò che era «come scoprire i diversi strati di fondazione di una città antica».

Nel 2021, quando La Nuova Frontiera dà alle stampe Un piede in paradiso, è proprio questo che sta facendo: riacciuffare nel tempo una perla oltreoceano, il romanzo di Ron Rash pubblicato nel 2002 con il titolo One Foot in Eden; la traduzione è affidata a Tommaso Pincio, con il compito di restituire nella nostra lingua la polifonia di voci che lo compongono.

Per il lettore italiano, in effetti, è come scoprire una città sommersa, il che ci porta dritti al cuore della vicenda. Ci troviamo a Oconee, contea agricola degli Appalachi nel South Carolina, una terra che sembra nascere per essere sottratta a chi la abita. È accaduto agli Cherokee, spinti verso le montagne dai colonizzatori di ieri; quindi, in questa estate torrida dei primi anni Cinquanta, alla piccola comunità rurale destinata a disperdersi per lasciare spazio alla Carolina Power, la compagnia elettrica che ha in programma di inondare la valle per creare una diga e un lago da cui ricavare energia.

Se il solido realismo dello scenario è quello delle grandi storie di William Faulkner o di Flannery O’Connor, non è però unicamente la scelta dell’ambientazione a intrecciare il filo rosso che lega Rash ai grandi narratori del Sud. Si tratta, piuttosto, del vivido lirismo e della grazia pittorica di cui il paesaggio è impregnato, che tuttavia non appesantiscono la tensione tipicamente americana della narrazione. Non sorprende, a tal proposito, il fatto che il romanzo, nel 2002, sia uscito insieme a una raccolta di poesie dell’autore sugli stessi temi, Raising the Dead, esplicitando l’intento di fondere contenuti e registri.

Di voce in voce, dunque, dalla pagina si leva il ritratto di una terra che ha qualcosa di mitico già prima di scomparire, così come eroici appaiono gli uomini che la popolano, con la loro ostinazione a strapparle ogni giorno quanto basta per vivere.

Il primo a introdurci tra le montagne, presso questi uomini, è lo sceriffo Will Alexander, chiamato a indagare sulla scomparsa del giovane Holland Winchester, reduce decorato della guerra di Corea e grande attaccabrighe. Quella dello sceriffo, personaggio acuto e a tratti tormentato dalla nostalgia della piccola contea che ha abbandonato per uno stipendio fisso in città, è la prima delle cinque prospettive che compongono il romanzo. Vale la pena osservare come sia lui che l’ultimo personaggio, Il vice, non siano introdotti con il loro nome, bensì con la loro funzione sociale. I rappresentanti della legge, insomma, racchiudono il romanzo, consentendo al lettore di apprezzare l’andamento discendente della storia, quasi l’inquadratura si stringesse progressivamente sul carattere dei personaggi fino a intrufolarsi nell’intimo della loro casa, nei loro pensieri più bui. L’omicidio attorno a cui ruota la vicenda, d’altra parte, viene presto relegato a pretesto per lo sviluppo di considerazioni esistenziali sulla natura dell’uomo e ciò che la società gli richiede, sui limiti e i confini interiori, sulla perdita degli affetti personali e quella di intere comunità, inesorabilmente sommerse dall’industrializzazione.

Al momento della scomparsa del ragazzo, il vicino di casa, il coltivatore di tabacco Billy Holcombe, viene accusato di omicidio. Dalla tenuta adiacente, la madre di Winchester dice allo sceriffo di aver sentito due spari e punta subito il dito verso la casa di Billy. Il movente pare essere la relazione che il figlio avrebbe avuto con sua moglie Amy, dalla quale, forse, ha origine il bambino che ha in grembo.

Date le premesse, il caso sembra destinato a risolversi nel giro di qualche ora, eppure il corpo non viene mai rinvenuto. Dopo una serie di buchi nell’acqua, lo sceriffo è costretto a dichiarare chiuse le indagini, lasciando così spazio alle altre quattro voci che si susseguono e che spesso tornano sugli stessi episodi con uno slittamento prospettico.

Il presunto omicidio, via via, arretra sullo sfondo. In primo piano rimangono personaggi articolati, in cui si rivela pienamente la volontà di Rash di applicare al panorama letterario conosciuto una psicologia che metta in crisi i costrutti tradizionali, donando al romanzo un ampio respiro contemporaneo. È il caso del tema della mascolinità, che si esprime anche per mezzo dell’unica voce femminile, quella di Amy Holcombe. Il suo monologo, in seconda posizione, è per altro il più affascinante dal punto di vista del racconto introspettivo, e testimonia lo sforzo di Rash di interpretare i pensieri di una donna e la sua percezione del mondo prevalentemente maschile che la circonda per illuminarne i lati contraddittori.

«Nel cuore di una donna scorrono fiumi troppo profondi per un uomo», riflette il marito nel capitolo seguente. Proprio il taciturno Billy sempre chino sui campi, che, insieme all’autore, riconosce così candidamente i suoi limiti di comprensione, incarna infatti questa difficoltà rispetto alla rappresentazione univoca di un maschile che fa sempre più fatica a definirsi e che acquista complessità grazie all’intersezione dei punti di vista.

Rimasto storpio e sterile a causa di una poliomielite, Billy intrattiene una relazione autentica e viscerale con la terra e proprio da questo rapporto così fatalista, forse, trae la forza per accogliere il comportamento di Amy senza spezzarsi e senza mai indulgere a un facile moralismo, regalandoci alcune tra le riflessioni più struggenti del romanzo. La possibilità di una qualunque stigmatizzazione di genere, infine, è neutralizzata dalla figura del virile Holland Winchester – amante temporaneo di Amy e rimedio alla sterilità di Billy – che si rivela tragicamente oggettivato e manipolato.

La penultima voce, quella del figlio che si trova a fare i conti con le sue origini, spinge avanti la narrazione di vent’anni. «Ma niente è solido e duraturo», diceva lo sceriffo nel primo capitolo. «Le nostre vite si reggono su fondamenta instabili. Non è necessario leggere i libri di storia per scoprirlo. Ti basta conoscere la storia della tua vita». Isaac cerca di mettere insieme i fili della sua e, come gli altri personaggi, si scopre indeciso, combattuto in una collisione di sentimenti che innalzano la pagina e le conferiscono una tinta espressionista.

L’ultima visione della contea, quasi onirica, arriva per bocca del vicesceriffo. Il libro, ormai, trabocca dell’acqua che ricopre Oconee; un’acqua piena di tempo con dentro i suoi uomini e il suo mais, il tabacco, la Corea di un tempo e il Vietnam che echeggia nelle televisioni, lasciandoci una malinconia che di rimando è simile all’acqua: di passaggio, destinata a diventare altro.

«Ho pensato alle radici che assorbivano quella pioggia e tutta quell’acqua che si riversava su foglie e fusti, allagando la piantagione come un fiume. Sapevo che per molte piante era ormai troppo tardi, ma qualcuna si sarebbe salvata. E già questo era molto più di quanto mi aspettassi il giorno prima».

 

(Ron Rash, Un piede in paradiso, trad. di Tommaso Pincio, La Nuova Frontiera, 2021, 256 pp., euro 16,90, articolo di Elena Panzera)
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