André Frénaud, «Gli anni e i giorni non prendono sonno»

La genesi di “L’agonia del generale Krivitski”

di / 27 ottobre 2021

Ritratto di André Frénaud

A partire dal 1958 la casa editrice Il Saggiatore avvia la collana Biblioteca delle Silerchie. Volumetti cartonati, dall’innovativa veste grafica – particolarmente colorata ed elegante – che fin da subito conquistano migliaia di lettori. Il termine Silerchie, che attira immediatamente l’attenzione anche del semplice curioso, ha un senso e un significato del tutto particolare. La risposta giunge grazie alla domanda posta da un lettore. Nel catalogo n. 2 Primavera-Estate 1959 si legge: «Le Silerchie è una via, una strada di campagna che si stacca dalla nazionale Camaiore-Lucca, si inerpica sulle Apuane, poi diventa sentiero tra i boschi.

Nell’ideare una collana di brevi libri attraenti e spesso illustri come il paesaggio della Versilia, mi è parso di invitare il lettore a una poetica passeggiata». Grazie a questa semplice e al contempo grandiosa suggestione ha inizio una collana destinata a ospitare titoli di un certo rilievo culturale, non sempre – appunto – conosciuti al grande pubblico. Si tratta di autori da riscoprire oppure anche di opere reputate secondarie di scrittori illustri.

Nel 1962, al prezzo di quattrocento lire, tra i vari titoli esce un libretto decisamente interessante e non più riedito in Italia. Si tratta del poema biografico L’agonia del generale Krivitski del francese André Frénaud per la traduzione di Franco Fortini.

 

Una «poesia a statura d’uomo»

 

Nonostante sia un nome noto oltralpe, Frénaud fatica a imporsi all’attenzione del lettore italiano. La Biblioteca delle Silerchie, in linea con la propria missione, scommette su questo libro di una settantina di pagine. I versi sono presentati dallo stesso autore che si impegna a raccontare la genesi del poema, permettendo così al lettore di cogliere i riferimenti biografici, altrimenti difficilmente rinvenibili. Definita da un suo critico come una «poesia a statura d’uomo», la produzione poetica di Frénaud subisce varie evoluzioni.

Nato a Monceau-les-Mines nel 1907, dopo gli studi in lettere, filosofia e diritto, soggiorna in vari Paesi europei. Durante la Seconda guerra mondiale riesce ad evadere dalla prigionia in Germania ed entra a far parte della Resistenza, collaborando anche a un fascicolo della rivista Poésie 42. I suoi versi vengono presentati da Georges Meyzargues, pseudonimo di Louis Aragon, uno dei massimi esponenti del surrealismo francese. Al pari di Aragon, però, anche Frénaud riesce a superare l’esperienza dei vari manifesti artistici del Novecento e si contraddistingue per una poetica riconoscibile, intellettuale ma anche di denuncia sociale, vicina alle esigenze del popolo.

La maggior parte della sua opera in versi fino al 1962 si trova raccolta in Il n’y a pas de paradis, edita da Mondadori nel 1998 col titolo letterale Non c’è paradiso. La produzione dell’autore prosegue anche negli anni successivi e gli vengono conferiti premi a livello nazionale e internazionale. Fra tutti si ricordano il Grand Prix de poésie dell’Académie française e il Grand Prix national de poésie. Frénaud si spegne a Parigi nel 1993, senza che in Italia sia stata pubblicata la sua opera in maniera significativa. Oggi, fortunatamente, possiamo almeno riscoprire in parte la sua poetica grazie a questo volume, sicuramente figlio del secondo dopo guerra e della Guerra fredda, ma che mantiene immutato il suo fascino.

 

«Era il mio sangue a urlare sotto la frusta del capo»: la nascita di un generale

 

Krivitski è stato conosciuto dall’autore a Montmartre nel 1937 in gran mistero e con le dovute precauzioni. Come scrive Frénaud nella presentazione: «Quarantenne, bolscevico dal 1917, ufficiale dell’esercito e agente segreto, si trova a Parigi in qualità di capo del controspionaggio sovietico in Europa occidentale quando aveva deciso, un mese innanzi, di non tornare a Mosca, dove lo aspettava la purga». Krivitsky racconta a Frénaud la sua vita e questi brevi, ma ricchi incontri ispireranno l’opera a distanza di anni. Il poema si apre immediatamente con la morte del protagonista: d’altronde Krivitski muore nel 1941 e il testo viene pubblicato per la prima volta nel 1960. La fine del generale è tragica: viene trovato assassinato nell’appartamento newyorkese di un parente del senatore Lafolette. «Sette colpi hanno traversato l’aorta, / le circonvoluzioni tanto tenere. Allora / si svegliano le alghe rosse dell’agonia / e prendono a sommuovere l’acqua delle meningi».

Dall’incipit d’effetto, il lettore è inevitabilmente attratto ad approfondire la storia di questo personaggio singolare, ucciso da un misterioso e non meglio identificato Jim – lo stesso Krivitski ne faceva un vago riferimento nelle sue conversazioni, senza entrare mai nel dettaglio. Seguono ricordi, riflessioni sula sua terra d’origine, l’Ucraina: «Ucràina, frontiere d’infanzia … Come laggiù il grano piega / sotto il respiro dei Signori!».

Alla memoria emergono anche i primi soprusi di cui il futuro generale è testimone. Il particolare, il fatto più rilevante per la sua infanzia – che gli infonde quell’accentuato senso della giustizia – è quando vede un operaio frustrato: «quando cascò, a Nicolaiev, nella neve quell’operaio, / era il mio sangue a urlare sotto la frusta del capo, / ero io allora, per sempre, colpito, / era voi, ero io, fratelli che libererò; / e uomini metterò al mondo, innocenti, se è / necessario, col ferro».

Emerge, però, già da questi primi componimenti come il destino di Krivitski sia segnato dalla violenza, anche in quanto lui stesso non la rifugge. Si tratta, dunque, di una visione totalmente differente rispetto all’insegnamento pacifista impartitoci da Tolstoj. Ne segue la sua partecipazione alla Rivoluzione d’ottobre di cui diviene un estenuo sostenitore. La morte della casa reale («e, principesse morte, via dalle dita i diamanti!») viene considerata come un fatto necessario per sovvertire l’ordine in Russia. La rivolta violenta è accompagnata da momenti di uno spiccato lirismo, come se il sangue versato purificasse in vista di un futuro radioso: «Ma nell’anima avevo ridenti danzanti germogli / come i verdi licheni del mare al mattino / e i girasoli levavano un brusìo di capi felici / verso la luce dove andavo, forse, / verso di me traverso le mani mie rosse».

Frénaud non condivide – come d’altro canto emerge più volte nella presentazione – le idee del suo soggetto, eppure ne compie una profonda analisi psicologica. Quindi siamo di fronte a un fedele – e ossessionato, potremmo aggiungere – seguace della Rivoluzione che si fa promotore di essa nelle diverse città dell’est Europa. Nel poemetto Krivitsky si definisce un agitatore della propaganda, un «buon pastore dell’odio di classe».

Col passare della giovinezza e dei suoi fervori, diviene una spia per conto dell’Unione sovietica. Il generale si rifugia nel «perfido calore» dell’Europa e si dedica alle più svariate professioni: prima antiquario ad Amsterdam – dove acquista persino un Modigliani – poi rifugiato a Parigi. Nel frattempo continua a raccogliere informazioni segrete. Intanto in Russia ha inizio la Grande Purga e il generale ne risulta particolarmente colpito, anche a seguito della morte dell’amico e collega Ignace Reiss. Al momento dell’incontro con il Poeta, Krivitski appare stanco: «avrebbe voluto, mi diceva qualche volta, abbandonare ogni attività politica e limitarsi a vivere». Questa impressione ispira, in particolare, uno degli ultimi versi del poemetto: «a quella nostra impresa io non ci credo più».

 

«Non sono più un agente di Stalin»: la defezione

 

Eppure, Lenin è ormai morto e con esso l’idea primigenia della Rivoluzione bolscevica («il gigante Ottobre si sbriciola»). Il generale per un primo momento appoggia lo stalinismo, ma poi ne condanna gli «eccessi mostruosi». È impossibile quindi restarsene inerti «nelle immobili ali della solitudine dentro la storia»: bisogna reagire contro il Partito tramutatosi in un «tiranno selvaggio», traditore. Krivitski diviene nemico della rivoluzione o – per dirla con parole migliori –: è «come se prendesse nuovamente posizione a favore d’una positività della Rivoluzione. Il Partito dei proletari torna a essere, come egli ha creduto per tutta la vita, la forza capace di realizzare nella storia un intento di giustizia». Ma andare contro Stalin significa dire addio una volta per tutte all’Unione sovietica, entrando così a far parte del folto gruppo degli esiliati: «Non sono più un agente di Stalin … / E non le vedrò più le mie vie lungo la Neva / né le cupole di Kazàn come i gran soli / nell’orto di mio padre, né la isba / dove son nato nei vimini umidi».

In maniera perspicace Frénaud evidenzia come Krivitski sia probabilmente incapace di continuare la propria lotta contro il sistema; tuttavia, la rivolta è stata talmente parte fondante della propria esistenza che la semplice mancanza gli procura malessere. E se lo stesso concetto di lotta fosse per lui divenuta la unica ragione di vita? Anticipando l’avanzata nazista, nel 1938 emigra in America («in questa grande America / dalle vaste avenues di infiniti possibili») e continua la sua opera contro Stalin pubblicando su diverse testate giornalistiche. Giunge persino a testimoniare davanti al Comitato per le attività antiamericane.

Con l’assassinio di Trotsky nell’agosto del 1940, Krivitski si sente ulteriormente minacciato: «Sei sempre là, Rivoluzione. Ti ritrovo che m’aspetti / come se non m’avessi mai lasciato. / Non più quando inganni e prometti vittoria / in un mondo che si disfa e che si forma, / ma quando neghi a piena voce derisoria, / o mia grande, e io sto nel tuo rombo d’angoscia!».

 

Un epilogo disincantato

 

Il nichilismo prende il sopravvento secondo la libera interpretazione di Frénaud e il generale accetta il proprio trapasso con un’abnegazione quasi ascetica. «E oggi è venuto l’istante che non avrà fine, / e sono come un cavallo volante, enorme criniera di raggi, sulle città e le fiumane svanite».

Quella di Krivitski non è una morte gloriosa, è il trapasso di un uomo saldo e radicato nei propri princìpi e al contempo disincantato. Il suo vivere intensamente ogni attimo della propria esistenza, soprattutto in relazione al concetto di lotta, lo porta gradualmente a indebolirsi con l’età e con il susseguirsi degli eventi storici che tutti conosciamo. La sua è un’agonia, lenta e senza un attimo di requie. Solo la morte gli dona la tranquillità sperata: il riposo a ricordare i suoi campi di Ucraina. Frénaud rende omaggio a un uomo, figlio prediletto del suo tempo e condannato a finire con esso.

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