I nomi e le pietre

“Cronache dalle terre di Scarciafratta” di Remo Rapino

di / 24 gennaio 2022

Copertina di Cronache dalle terre di Scarciafratta

La notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969, mentre Neil Armstrong e Buzz Aldrin, per la prima volta nella storia, sono in procinto di mettere piede sulla luna, in una casa di riposo di Villa Adriatica, l’ottantaduenne Ruscitti Domenico, per tutti Mengo, sta per spirare, assistito da Cippella Oreste, neoassunto operatore per le pulizie.

La luna, alla quale Mengo era solito rivolgersi dalla Rocca del Castello di Scarciafratta, villaggio disabitato e sperduto tra le montagne abruzzesi, quella luna, che Mengo aveva smesso di ammirare, dal giorno del ricovero nella clinica, non sarebbe stata più soltanto sua. Eppure, in punto di morte, essa costituiva il desiderio finale di Mengo: uno sguardo, un solo sguardo estremo oltre la finestra della sua stanza bianca per coglierne la luce che illuminava il mare e l’orizzonte, per cullarsi nell’illusione di non danzare l’ultimo valzer in solitudine.

È proprio la solitudine esistenziale il leitmotiv di Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimum fax, 2021), nuovo romanzo di Remo Rapino, già vincitore del Premio Campiello 2020 con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio. Come Liborio, anche Mengo appartiene a quella fetta di umanità emarginata che non ha voce, ma che porta con sé il grandioso potere di comprendere le cose invisibili, quelle che sfuggono, perché divorate dalla dimenticanza di un materialismo cinico e moderno. Gente «abbandonata dalla vita», l’ha definita Michele Fina in una recente intervista all’autore, accostando il romanzo all’Antologia di Spoon River, ove ogni poesia introduce il personaggio successivo.

Ed è così che si muovono le cronache, secondo una struttura narrativa complessa, sostanziata nel cambio continuo del punto di vista, nell’intervento di innumerevoli anime dai nomi stravaganti (gli ex abitanti di Scarciafratta) che si incrociano, parlando l’uno dell’altro e creando una frammentazione e relativizzazione della realtà. Tra essi abbiamo D’Annunzio Uberto, il nobile e il più colto del paese, Forchetta don Visidoro, maestro della banda musicale, Ramaglia Giuseppe, detto Iseppe di Scrocche per la sua tendenza a non pagare il conto, Policorvo Nicolino, detto Culì, lo scimunito, Trovato Grinuccio, lo storpio con il sogno di diventare campanaro, Della Torre Cafiero, detto Asino del Bellamore, venuto alla luce il giorno della disfatta di Caporetto, Capezza Malvina, la santocchia, Bonaluce Artemisio, poeta e cantiniere, e Mingone Pietro, maestro ramaio e comunista. Nella propria presentazione, ognuno dedica una riga a Mengo, che rappresenta il baricentro sentimentale a cui il lettore può continuamente riferirsi, e ciò conferisce circolarità al romanzo.

Apprendiamo che Mengo, che tutti considerano lo scemo del villaggio, trascorre le giornate sulla Rocca, il punto più alto e isolato di Scarciafratta, insieme a un vecchio cane dagli occhi azzurri a cui ha dato il nome di Sciambricò e, seduto sull’uscio, assiste al progressivo spopolamento del paese e all’abbandono delle case che si riducono in pietre e si sfarinano. Le ripetute catastrofi naturali, le disgrazie umane e il terremoto (la Cosa Brutta) hanno infatti indotto gli abitanti a emigrare verso Lörrach, Zurigo, Francoforte, Marcinelle alla ricerca di fortuna e di una nuova vita. E una grossa quercia che si trova a valle di questa Macondo d’Abruzzo indica il confine tra chi va e chi torna per le feste. Ogni persona che parte corrisponde a una pietra che muore, ogni casa che chiude significa macerie, edera che si arrampica sui muri, morte lontana. Le pietre sono racconti, memorie, ciò che è stato e che non esiste più.

Tra le macerie di una scuola, Mengo rinviene alcuni quaderni di bambini e un registro dell’ufficio anagrafe pieno di nomi, nascite, decessi, date e matrimoni e di storie degli abitanti, e procederà a trascriverle una per una. A differenza degli altri, Mengo non intende lasciare Scarciafratta e resiste, aggrappandosi proprio a quel registro, nel disperato e illusorio tentativo di ribellarsi alla dimenticanza e quasi di convincere gli emigranti a un immaginario ritorno.

Come Bonfiglio Liborio, anche Mengo vivrà un amore inespresso e non ricambiato per la bella Ninetta Incantalupo che alla fine sposerà un ricco commerciante di zafferano ed emigrerà verso il Veneto. Le vicende si svolgono in un periodo storico costellato di tragedie: Rosina piange il figlio soldato nella campagna di Russia che non tornerà più, Spadafora Corradino e Nocella Peppe rievocano gli episodi della guerra civile spagnola, il disastro nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle verrà citato diverse volte nel corso della narrazione, quale evento simbolico e disperante della disillusione. Come dice lo stesso Nocella, poi partito per gli Stati Uniti: «Non ci sta nessuna America. Pane nero e letto di gramigna pure dentro a questo nuovo mondo». All’esito drammatico dei fatti, la decisa resistenza di Mengo nel non lasciare Scarciafratta appare la migliore scelta. E l’uomo, da tutti considerato pazzo, si rivela invece portatore di una consapevolezza premonitrice e pacata a dispetto della perenne irrequietezza dei suoi concittadini: «Io non l’ho mai visto il mare e sono stato bene lo stesso, mica mi è mancato qualcosa, e poi uno, in un posto può stare, siamo mica uccelli che vanno e vengono, e non sanno mai cosa vogliono, di qua di là, non stanno mai quieti, che so, sui fili della luce, tra i rami, sui tetti, in mezzo alle nuvole. Sempre a cercare terre nuove e cieli nuovi e non trovano niente alla fine».

Per merito di Mengo, Scarciafratta diventa il vero protagonista della storia, perché rappresenta tutte le comunità morenti del mondo, che rifiutano la dimenticanza in nome di una morte memorabile e gloriosa.

Con questa nuova opera, Rapino sancisce la sua letteratura degli ultimi, esibendo una scrittura inconfondibile, dal ritmo musicale quanto poetico. La trasposizione linguistica del parlato, caratterizzata da espressioni dialettali, avvicina il cuore e l’orecchio del lettore all’anima e alla bocca dei personaggi. Infine, l’universalità dei temi e la cura del dettaglio restituiscono una storia epica.

 

(Remo Rapino, Cronache dalle terre di Scarciafratta, minimum fax, 2021, 208 pp., euro 17, articolo di Carmine Madeo)

 

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