Proust icona pop

Coincidenza tra opera, vita personale e immagine

di / 10 novembre 2022

illustrazione Proust icona pop

L’avorio pallidissimo del viso interrotto dal nero corvino dei capelli, i baffi alla moda, gli occhi un po’ bovini dallo sguardo sognante, mite, assente, la mano spesso a sorreggere il mento in pose quiete dall’eleganza trattenuta, tra il pensoso e l’annoiato, l’immagine di Proust campeggia oggi in innumerevoli gadget del consumo di massa. Effigiata sulle tazze per la colazione – preferibilmente da destinarsi agli infusi di tè o di tiglio in cui inzuppare le madeleine – sopra francobolli e carta da lettere, reiterata in stampe serigrafiche alla Andy Warhol dai colori sgargianti, su cover di tablet e telefonini, in medaglioni o confezioni di fiammiferi, al pari di una rock star l’icona proustiana è consacrata serialmente su magliette, nonché celebrata in bambole da collezione dipinte e cucite a mano in edizione limitata.

L’enorme successo de La Recherche si è espanso al di fuori delle sue oltre tremila pagine, riverberandosi attraverso le rare fotografie o dipinti del suo autore, al contempo assurto a emblema culturale quanto a icona pop. L’apparente ossimoro sembra segnare la piena rivincita di quel sentimento del sé tipico dello Zeitgeist odierno, caratterizzato com’è da frustrazione e forte spirito di rivalsa. Quell’uomo «molto giovanile: snello ma non magro, con una pelle bellissima e denti straordinariamente candidi», che «a causa del suo aspetto aggraziato alcuni immaginano (…) fosse piuttosto piccolo e invece era alto come me, e io non sono piccola, visto che misuro più di un metro e settantadue», descritto dalla fedele domestica Céleste Albaret in Monsieur Proust (SE, 2004), è quel medesimo «sciocchino del Ritz» a proposito del quale Gide, credendo fosse solo «un farfallone mondano appassito», affermò aver scartato Dalla parte di Swann in quanto giudicato di poco valore – salvo pentirsene amaramente in seguito – ma di cui in realtà pare non avesse letto una sola pagina, a quanto si dice perché il nodo che legava il pacco non era mai stato sciolto.

L’immagine di raffinato dandy dell’alta borghesia e frequentatore di circoli aristocratici è infatti stata pagata a caro prezzo da Proust, inizialmente bersaglio di sferzanti lodi come quella del pittore tedesco Max Unold, che lo definì capace di «rendere interessanti storie da portinaie». E ancora: «Pensi un po’, signor lettore, ieri inzuppo un biscotto nel tè e mi viene in mente che da bambino andavo in campagna – e per raccontarlo impiega ottanta pagine che sono così estasianti che ci si dimentica di essere solo ascoltatori e si crede piuttosto di essere i soggetti di quella fantasia». Incarnazione dell’apparenza che inganna e dell’ambiguità duplice e contraddittoria della realtà, la fisicità di Proust colpisce per la curiosa sorta di ritegno che emana, una sensazione inquieta di desiderio e malinconia da cui, nascostamente, traspare una qual certa candida complicità con i vizi segreti dei suoi personaggi.

Nel famoso ritratto di Jacques-Émile Blanche del 1892, eseguito sulla base di un disegno a matita fatto la primavera precedente a Trouville, un Proust ventenne sfoggia un curioso fiore all’occhiello, al cui riguardo sono state formulate varie ipotesi. A causa dell’asma che lo affliggeva si tende a pensare fosse una camelia, cioè un fiore inodore, del resto indossato comunemente dai gentiluomini dell’epoca. Secondo il celebre francesista Giovanni Macchia, invece, si tratta di un’orchidea, fiore sempre senza profumo ma anche estremamente significativo per la sua poetica. Supposizione certamente appropriata, in quanto le orchidacee sono piante complesse e dalla natura sessuale polimorfa. Se dunque nella sua indeterminatezza Blanche si dimostra volutamente ambiguo, stabilendo una coincidenza simbolica sottile, tuttavia precisa e non casuale, tra essere umano e sua rappresentazione, oggi possiamo aggiungervi l’identità di artista e scrittore. Tutto in Proust stabilisce il segno del segreto e della doppiezza dell’esistenza: la sua opera, la sua vita personale e perfino il suo aspetto fisico.

 

 

Quel «gran signore (…) vestito semplicemente, un paio di pantaloni con la giacca da casa sulla camicia bianca» e col «ciuffetto sulla fronte», che colpì subito la cameriera Céleste la prima volta che lo vide, secondo Cocteau è reso unico e grande proprio da quella disfatta, quella cruda verità che emerge dalla ricerca del cuore umano, da tutti quei vizi misteriosi che lui stesso aveva e che sono al fondo di ogni suo personaggio, come osserva in Jean Cocteau secondo Jean Cocteau (Castelvecchi, 2013). Basti citare la vera Albertine, sbagliata dopo il primo istante, di cui il Narratore apprenderà da Andrée, in seguito alla morte, le relazioni erotiche con una signora in grigio e una lavandaia, non meno che il perverso legame con Morel, il quale seduceva ragazze che, per non perderlo, accettavano di avere rapporti con Albertine o anche a tre. Oppure il doppio fondo del barone di Charlus, affascinante, ambiguo, imprevedibile. «Fin dalla sua prima apparizione, lo strano sguardo, gli occhi di Charlus sono descritti come quelli di una spia, di un ladro, di un mercante, di un poliziotto, o di un folle» scrive Gilles Deleuze in Marcel Proust e i segni (Einaudi, 1986). Così come Gilberte, che attraverso il racconto dei giochi proibiti, al buio, tra le rovine della torre di Roussainville, alla matinée Guermantes svela infine la sua vera natura.

Quel lato oscuro che giace nel profondo di noi stessi e degli altri, scoperto sempre troppo tardi, è forse visibile negli «occhi sporgenti, le ciglia lunghe e lucide, il collo sottile» del «giovanotto pallido e bruno» che siede rispettosamente silenzioso accanto allo scrittore e critico d’arte Ugo Ojetti, che rimasto folgorato dalla sua personalità ne parlerà in Cose viste (Mondadori, 1940). Ojetti, pur attraverso la «marsina con le spalle troppo larghe e con le maniche troppo lunghe che non sembrava la sua, la cravatta bianca un poco pesta e di traverso, lo sparato a onde» o chissà, proprio grazie a ciò e al tacere «immobile in quel suo atteggiamento cascante» del giovane Marcel, che «mutava solo la posizione della testa, ora piegandola sulla spalla sinistra ora sulla destra, come fanno gli uccelli», deve aver intravisto quello specchio della realtà seconda che costituirà l’universo immaginifico dell’opera proustiana.

Gérard Genette, in Figure III (Einaudi, 1986), osserva che nel comporre la coerenza di un luogo, l’unità di un clima, l’armonia di un’ora, ne La Recherche vi sono alcuni punti di concentrazione più intensa, come focolai d’irradiazione estetica. Certi personaggi traggono il loro tema personale dalla cornice della loro prima apparizione, come Albertine e il gruppo in controluce delle fanciulle in fiore davanti al mare, Saint-Loup nella biondezza del sole moltiplicata dai bagliori del monocolo; Gilberte, per sempre legata alla siepe di biancospini e alle passeggiate «dalla parte di Swann». Alla pari dei suoi personaggi, la dominante estetica della figura di Proust che è giunta fino a noi – le pose statiche, di gruppo o singole, nel bianco-nero o nel seppia delle fotografie, stagliate su fondali neutri che ricordano la dorata astrazione delle icone bizantine – suscita l’immagine di una dimensione coerente. Il doppio fondo che anima La Recherche vive nell’ambigua fascinazione dei ritratti del suo autore, e viceversa.

«Lo snob», «il mondano dilettante» descritto da Gide, con i suoi cappelli a cilindro, le sue pagliette, il bastone da passeggio dal manico d’argento e il cappotto foderato di pelliccia, che tuttavia non disdegnava di accogliere ospiti in casa presentandosi in négligé e spettinato, era molto più vicino alle contraddizioni della contemporaneità di quanto all’epoca si potesse supporre. «Non appena si smette di desiderare una cosa la si ottiene. Mi sono accorto che è proprio un assioma», dice Andy Warhol in La filosofia di Andy Warhol (Costa e Nolan, 1975), interpretando il disincanto e la confusione dell’America post Kennedy, pop e consumistica, opulenta e aggressiva, quella che aveva “perduto l’innocenza”. Eppure, circa ottant’anni prima, nel Jean Santeuil Proust aveva espresso, in netto anticipo sui tempi, un’analoga distanza tra l’essere e il mondo, tra il desiderio e il suo soddisfacimento: «Le cose che vogliamo, un giorno ci apparterranno senz’altro. Sì, ma quando non le desidereremo più».

Peccato che non potremo mai sapere com’era la sua voce, che il contemporaneo Ramon Fernandez riferisce come «miracolosa, prudente, discreta, astratta, punteggiata, ovattata», e che sembrava formarsi non dalla gola ma «nelle regioni stesse dell’intelligenza». Di quel «giovanotto (…) avvolto in sciarpe di lana» conosciamo in compenso le abitudini, come ricorda Daudet vedendolo entrare al circolo di artisti e scrittori del ristorante Weber nella Rue Royale, verso le sette e mezza di sera: « Si faceva portare un grappolo d’uva, un bicchiere d’acqua, spiegava che si era alzato allora, aveva un’influenza, si sarebbe rimesso a letto, il rumore gli dava fastidio; gettava sguardi inquieti e ironici intorno a sé, poi finalmente scoppiava in un riso estasiato; e restava. In un tono esitante e pur frettoloso gli venivano alle labbra riflessioni di sorprendente novità e di diabolica finezza». (Ernst Robert Curtius, Marcel Proust Il Mulino, 1985).

Lo spaesamento, il disagio, l’amarezza, il dolore legati alla capacità di mettere a nudo le profondità di noi stessi e degli altri non sono il limite di uno scrittore decadente e malato. Molto più che l’espressione tipica della sua epoca, e ben oltre ogni prospettiva ideologica o socio-politica, il soggettivismo di Proust racconta la genesi di una visione del mondo. Il dispiegarsi di quella verità nascosta, dura e contraddittoria che intuiamo e dalla quale siamo attratti ma che, alla fine, non vorremmo mai conoscere. Oltre alla sua opera, da cento anni le sue abitudini, la sua vita, il suo aspetto fisico, in una parola la sua immagine, testimoniano della complessità della realtà e ci attirano irresistibilmente.

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