Cinema
L’odore della lotta di classe
Su "Parasite" di Bong Joon-ho
di Giacomo Sauro / 15 novembre
Lo scorso maggio Bong Joon-ho l’ha spuntata contro due mostri sacri come Almodóvar e Tarantino al Festival di Cannes, aggiudicandosi la Palma d’oro con il suo Parasite. Il film è stato anche scelto per rappresentare la Corea del Sud ai prossimi Oscar, nella categoria riservata al miglior film internazionale, secondo la nuova dicitura. Nel frattempo Parasite è uscito in Italia, conservando il titolo inglese e le grandi aspettative dei cinefili.
Essendo anche co-produttore, autore del soggetto e co-autore della sceneggiatura, nonché ovviamente regista, il cineasta coreano Bong Joon-ho è il genitore unico di questo film. Gli spettatori che escono dalla sala al termine dei 132 minuti però avranno la sensazione di averne visti almeno due o tre, di film, e non è una questione di durata.
Per farci vivere quest’esperienza, Bong ci porta a Seul e ci fa conoscere due famiglie. Si parte, metaforicamente e non, dal basso, da un periferico seminterrato fetido in cui la famiglia Kim – padre, madre e un maschio e una femmina sulla ventina – sopravvive con pochi soldi e ciuccia il Wi-Fi di qualcun altro. Quando un amico chiede al giovane Kim di sostituirlo come insegnante privato d’inglese di una ricca adolescente, saliamo sulla collina di un bel quartiere residenziale e, all’interno di una mega casa di elegante architettura moderna, conosciamo i Park. Qui non ci accoglie la madre ma la governante.
I Park vogliono solo il meglio e hanno il mito degli Stati Uniti. Il padre è sempre in ufficio; la madre è ingenua e suggestionabile; la figlia è timida e risponde a una vita sotto la campana di vetro cercando storie d’amore con i suoi tutor; il figlio è piccolo e fa un po’ quello che gli pare, in fondo consapevole di essere considerato il genietto di casa. A prescindere dal respiro internazionale che questa famiglia alto-borghese di Seul cerca con insistenza e ostenta con discrezione, con i Park ci si dimentica di essere dall’altra parte del mondo e ci si lascia convincere dalla storia. Quando il lavoro di caratterizzazione è così esemplare non serve alcuno sforzo per sospendere l’incredulità.
Anche i Kim sono credibili, se non che, prima il ragazzo, poi il resto della famiglia, tirano fuori una soprannaturale capacità mimetica che permette loro di passare per dei professionisti impeccabili e sostituire gradualmente tutti i ruoli al servizio dei Park (insegnanti, autista, domestica). Mentre ci si chiede come facciano delle persone capaci di un’applicazione così lucida e indefessa a essere poveri in canna, il film fila sicuro, mosso da questo fantastico espediente narrativo.
A questo punto lo spazio abitativo dei ricchi è invaso surrettiziamente dai subalterni, e molti avvenimenti sono destinati ad avere luogo. Il palcoscenico principale diventa la super casa dei Park, nei cui corridoi scorrono come sul velluto i carrelli di Bong e nelle cui sale risuonano gli archi della colonna sonora originale e a un certo punto anche “In ginocchio da te” di Gianni Morandi.
I fatti ci mostrano che i quattro Kim si aggrappano ai Park, gli ospiti, per trarne beneficio. Sono dei parassiti, tecnicamente, sebbene questa parola non sia la prima a venire in mente guardando l’intreccio del film. Uno sciocco controllo con il traduttore di Google conferma che il titolo originale coreano si traduce in inglese come helminth, elminta, verme parassita. Zoologia a parte, gli scaltri sottoproletari sembrano essere le ombre dei loro omologhi benestanti, ma se in Noi di Jordan Peele gli ultimi venivano a (ri)prendersi il posto dei primi, qui le linee sono nette e il ruolo di chi è in cima non è messo in discussione; i sostituiti sono i penultimi, che ritornano quindi sul fondo in attesa di un illusorio momento di riscatto. Bong declina la lotta di classe secondo canoni contemporanei: una guerriglia tra esclusi, schermaglie per accaparrarsi le briciole che cascano dal tavolo. O per succhiare un po’ di vita dagli ospiti, va bene Bong.
Si possono intravedere temi alla Ken Loach, ma ci mette poco questo film, che parte come una commedia nera e attraversa con disinvoltura altri tre o quattro generi, a scrollarsi di dosso facili etichette. Non mancano scene pulp (ah, allora è tarantiniano!) e altre in cui il regista indulge in lampi di idealizzazione romantica. L’effetto generale è un insieme coeso di sequenze che rende la visione di Parasite un’esperienza cinematografica di alto livello.
Alla soddisfazione dello spettatore contribuiscono momenti carichi di metafore visive, perché l’occhio della camera è sapiente e mai casuale. E se anche i personaggi riescono a ingannarlo con i migliori trucchi per passare dalla parte buona e giocare con i limiti, ci sarà sempre un odore, una puzza, a ricordare a tutti chi sono i sani e chi invece gli elminti.
(Parasite di Bong Joon-ho, thriller/commedia/drammatico, 2019, 132’)
LA CRITICA - VOTO 8/10
Bong Joon-ho aggiorna la lotta di classe alle differenze sociali contemporanee. Non parla solo della Corea, ma di tutto il mondo, e lo fa spiazzando lo spettatore ogni volta che può.