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Libri

Lina Pietravalle, una scrittrice dimenticata

Tra verismo e decadentismo

di Ulderico Iorillo / 23 gennaio

Di Lina Pietravalle, o Lyna come si firma vezzosamente nei suoi primi libri, attualmente non è in commercio alcun lavoro. Nessuna novella, nessun romanzo, nessuna raccolta di racconti, niente circola della sua produzione, neppure quel Storie di paese, che le valse il secondo posto al Premio Viareggio nel ’31.

La fortuna critica di quest’autrice è stata ingiustamente breve, purtroppo in parte a causa di pregiudizi di genere; dove per genere s’intende sia quello letterario, che quello biologico. Riguardo quest’ultimo è noto, infatti, che la storia della letteratura femminile italiana di fine Ottocento e inizi Novecento è in gran parte frutto di riscoperte postume, se si escludono rari casi (Serao, Deledda). Riguardo il genere letterario, invece, la Pietravalle, oscilla tra il decadentismo dannunziano e il verismo di Verga, non aderendo pienamente a nessuna delle due correnti, e in questo limbo finisce per rimanere, ben presto espunta dalla rubricatura critica, scomparendo così dall’albo degli scrittori illustri già nel secolo scorso.

Ma la voce di questa scrittrice è forte e sorprendentemente moderna, e il pregiudizio di genere oggi non regge più come scusa per la sua damnatio memoriae.

«“La salute Gatà” gridò lietamente mio marito “è manza la cavalla della Novella mia?”

“È manza, con tutt’onore”.

“Ti piace Gatà, la Novella?”

“Adda piacere a voi e speriamo che faccia figli”.

“E perché non li deve fare?”

“Ah padrone, che t’ho da dire? È troppo sonella”.

Questo sonella, ossia snella, passò poi alla leggenda domestica e ridi e ridi non finimmo mai di ridere. Figurarsi allora. Si levava il sole dietro Monte Totila, quadrato, barbaro, cinto di spade e di fulmini d’oro come un Dio olimpico». (da Marcia nuziale).

 

 

È evidente che la Pietravalle guardi ai veristi, ma in quel mondo realistico che pure lei costruisce, inscrive l’autobiografismo, alternando al racconto oggettivo la narrazione in prima persona, così come il linguaggio muove tra gli arcaismi, le frasi solenni, e i dialettismi e il linguaggio colloquiale.

Vero protagonista delle opere è un «sud arcaico, terra di tradizioni, mondo agro-pastorale non contaminato dalle forme della vita urbana, primitivo, di valori non compromessi, di forti sentimenti e passioni». E la descrizione dei luoghi, della terra per cui prova amore e che descrive a volte in maniera antropomorfa, a volte con toni mistici ed estatici, fa da controcanto a quella dei personaggi che sembrano impastati con la stessa materia del paesaggio.

«Passavano accanto uomini scabri e taciturni e pecorelle con vaghi ciuffi d’erba in bocca, filettate di luce come nelle immagini sacre. Le poppe azzurrine dondolavano. “Prà, prà, prà… Ziré, ziré” chiamavano i pastori. E lui amorosamente spiegando: “Ti piace? Lo senti com’è poetico questo linguaggio? Ziré vuol dire sorè, sorelle. Essi chiamano le pecore sorelle”». (da Marcia nuziale).

Alcuni critici le rimproverano proprio la passione nel linguaggio, una sintassi che si scompone, si scapiglia e finisce per esagerare nell’essere troppo partecipata e schietta con una «vena di umorismo caricaturale e grottesco, quasi al limite dell’espressionismo». Un linguaggio che a volte sfocia in barocchismi ed eccessi retorici, cui presto però ci si abitua, e la voce dell’autrice diventa una musica cui ci si abbandona volentieri: «“Va, core di mamma, dalla commare Santa e fatti dare due foglie di prezzemolo”. Il bambino tornò trampolando e tutto schiacciato nel pugno portava il prezioso messaggio. Ma la madre non c’era. Egli piagnucolò un poco sulla porta. “Oi mà, oi mà…” ed allora una vicina s’affacciò dalla finestra e lo consolò come poteva: “Zitto, citolillo, che tua madre è andata a fare una masciata”, oh, che masciata lunga! Lunghissima. Aspetta, aspetta. Col suo prezzemolo in mano, seduto sullo scalino diruto della porta bassa della casupola, ha aspettato degli anni con quella voce stracca della madre sparita, nell’orecchio, malinconiosa come il suono dei campanacci delle pecore che vanno in Puglia quand’è ovattato nella nebbia: “Va, core di mamma dalla commare Santa…” Anni erano passati». (da I racconti della terra).

L’accoramento di Lina non risponde a una nuova visione della letteratura che prevede l’impegno politico, quella arriva più tardi e il nome della Pietravalle viene presto rimpiazzato con quello di Silone, Alvaro e Jovine, il cui approccio nei confronti della realtà che narrano ha una diversa consapevolezza. Gramsci, nei Quaderni del carcere, prende spunto da un appunto sul romanzo Le catene (1930) per ragionare sulla distanza ideologica tra il naturalismo francese e il verismo. Nel «realismo provinciale italiano e specialmente nel Verga: il popolo della campagna è visto con distacco, come natura estrinseca allo scrittore, come spettacolo naturale, un distacco appena velato da un sorriso bonario ed ironico». Sottintende chiaramente una distanza tra l’autrice e il mondo che descrive, cioè la mancanza di compenetrazione tra il mondo borghese-aristocratico della Pietravalle e quello rurale. Ma poi Gramsci afferma: «Le si perdona volentieri la sua sintassi da terremotata per merito di quel suo piglio franco e di quel linguaggio immaginoso […]. Ma vero è o non vero questo Molise fattucchiero, tarasconesco e attaccabrighe della Pietravalle? Aspetto di andarci».

Se pure riceve alcune critiche negative, soprattutto in occasione del suo primo romanzo, molti sono i sostenitori della scrittrice, tra questi c’è Curzio Malaparte che si dice «suo amico, suo ammiratore e suo alleato». Ma se si può discutere su quanto la scrittrice abbia abbracciato una visione marxista della società, è invece indiscutibile la franchezza della narrazione nella misura in cui parla della sua vita attraverso i personaggi che costruisce e che direttamente o indirettamente vivono la sua vita.

 

 

Nata in Puglia, a Fasano, da genitori molisani, fece del Molise la sua terra d’elezione e vi ambientò quasi tutti i suoi scritti, annettendo, così, «il Molise alla letteratura, come Grazia Deledda ha annesso la Sardegna e Matilde Serao Napoli», ebbe a dire il Tilgher.

La sua attività si attesta a partire dalla metà degli anni Venti fino al 1932, anno dell’uscita di Marcia Nuziale.  Viene edita da Mondadori prima e da Bompiani poi (postuma da Ceschina), nel frattempo pubblica novelle su alcuni giornali nazionali. Molti eventi tragici personali condizionano la vita della Pietravalle, a cominciare dall’assassinio del padre medico, deputato radicale e vicepresidente della camera dal ’19, ucciso da un suo paziente. Il primo matrimonio di Lina con il giornalista Pasquale Nonno, di cui parla nel libro La marcia nuziale, fallisce presto e, dopo alcuni anni, sposa il fratello dello scrittore Riccardo Bocchelli, Giorgio, ma questi muore in guerra. Negli anni Trenta lavora anche per il cinema, ma a seguito della morte dell’unico figlio, avvenuta nel 1944, si dedica solo alla scrittura di elzeviri su vari quotidiani (“Il Tempo”, “Il Mattino”, “Il Messaggero”), fino al 1956, anno della sua morte.

«Parlerò delle mie prime nozze e dell’arrivo in terra di Molise come di un fatto leggendario successo ad una larva di me che guardo curiosamente come una di quelle farfalle irrigidite nei vaghi colori, col corsaletto fulgido trafitto dall’inesorabile spillo. Vissero, non vissero? Attraversarono un giorno il sole, inebetite dall’ubriachezza della vita effimera? V’erano alberi mansueti, cieli clementi e fioretti gentili che guardavano volare i pappi di seta, i calabroni d’oro ed anche queste grandi farfalle con gli occhioni sporgenti, tatuate ed ingemmate come regine. Ma il perfido amator era in agguato con lo spillo assassino e addio, povera farfalla! Sempre viva, uguale, vitrea pare ma non c’è più davvero». (da Marcia nuziale)

Nonostante il mercato editoriale, ça va sans dire, viva di mode, di rapide infatuazioni di editor o editori, quando gli editori o le mode passano, le copie si esauriscono e i magazzini si svuotano, e siccome non tutti gli scrittori resistono allo stesso modo al tempo, per molti non esiste una seconda primavera. Questo, almeno in parte, è quello che è immeritatamente accaduto a Lina Pietravalle. D’altronde accade alle volte, che qualcuno in cerca di qualche bel recupero finisca per rovistare in vecchi cataloghi o incappi in qualche articolo in rete, e riscopra antichi tesori finiti tra le cose dimenticate o da buttar via. Nell’attesa che questo miracolo accada, per leggere la Pietravalle non restano che i mercatini.