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Quanto male tolleriamo in nome del bene?

Sanpa, una riflessione sul potere

di Elisa Scaringi / 5 febbraio

La docuserie Sanpa ha suscitato non poche reazioni, tra l’entusiasmo di pubblico e giornalisti e critiche da parte di alcune delle persone coinvolte. La comunità di San Patrignano se ne è completamente dissociata. «Il racconto che emerge è sommario e parziale, con una narrazione che si focalizza in prevalenza sulle testimonianze di detrattori», si legge nel comunicato ufficiale, arrivato pochi giorni dopo l’uscita della serie su Netflix, lo scorso 30 dicembre.

Frutto di un lavoro documentale molto importante, con oltre 180 ore di interviste e altre 200 di materiali d’archivio dell’epoca, durante il quale si sono rispettate le stringenti regole imposte da Netflix che impongono una triplica verifica delle fonti, la docuserie firmata da Cosima Spender è un prodotto notevole. 

Al di là del giudizio meramente personale sul confine tra oggettivo e soggettivo che può emergere nella comunicazione intorno a un evento storico o a un personaggio pubblico (cosa che nel nostro paese suscita spesso reazioni di disappunto quando la verità è piuttosto scomoda), Sanpa ci ricorda che raccontare una storia non è un male, soprattutto se il lavoro di ricerca è approfondito e mai del tutto accusatorio. Sì, perché addentrandosi attraverso le cinque puntate in cui è suddiviso il lungo documentario, chi guarda è portato a cambiare spesso idea nel tentativo di rispondere a una domanda implicita, sottesa a tutta la serie: quanto male si è disposti a tollerare perché venga fatto del bene? Carlo Gabardini lo dice chiaramente nella presentazione a Sanpa, di cui è autore: il documentario vuole essere una riflessione sul potere, quello delle persone, delle sostanze, della politica. 

Attraverso le 25 testimonianze, che conducono il racconto privo di una voce narrante su due direttrici, una cronologica e l’altra tematica, viene ricostruita la nascita della comunità di San Patrignano e le vicende mediatico-giudiziarie che ne hanno accompagnato il fondatore, Vincenzo Muccioli. Osannato da molti, soprattutto famiglie abbandonate dallo stato nel buio dell’eroina, per aver salvato centinaia di tossicodipendenti, è stato poi accusato per i metodi non proprio leciti (e pacifici) adottati nella comunità, spesso conditi da percosse, violenze, segregazione coatta, e sfociati in alcune morti sospette (un omicidio e tre suicidi), che hanno definitivamente gettato un’ombra indelebile sull’intera comunità. Qui si affaccia il dubbio atroce, sollevato dallo stesso Muccioli durante il primo dei due processi in cui fu imputato: è lecito usare la forza, anche quella più bruta e violenta, per salvare una vita? Lui stesso porta a esempio una persona che tenta di buttarsi da un ponte, salvata da un altro che lo afferra e poi lo scuote per redimerlo. Messa così non si potrebbe che dargli ragione, come poi fecero i giudici in secondo grado assolvendolo: non posso assistere alla scena di uno che vuole togliersi la vita, o farsi del male; devo intervenire, anche a costo di usare la forza.

Eppure questa giustificazione non è del tutto convincente, soprattutto se si pensa alle origini dell’espressione “comunità terapeutica” riferita per la prima volta da Thomas Main, nel 1946, al lavoro operato in alcuni ospedali psichiatrici inglesi e arrivata in Italia grazie a Franco Basaglia, che, a partire dagli anni Sessanta, inizia la sua sperimentazione. Un decennio dopo, quando l’eroina investe l’Italia e l’Europa occidentale, alcuni preti intuiscono la possibilità di utilizzare quell’idea di comunità per aprire le porte ai tossicodipendenti, che cominciavano ad affollare le strade del nostro paese: padre Eligio Gelmini fonda Mondo X nel 1967, quattro anni dopo don Mario Picchi avvia il Centro Italiano di Solidarietà, nel 1973 nasce Comunità Nuova di don Gino Rigoldi.

Quando lo Stato, nel 1978 con la legge 180, chiude almeno ufficialmente i manicomi, Vincenzo Muccioli fonda la sua comunità terapeutica, nella quale si fanno strada molte delle pratiche violente perpetrate per decenni negli ospedali psichiatrici. Nel momento esatto in cui si avvia un lungo processo di de-istituzionalizzazione dei metodi di cura e recupero dei malati di mente, a San Patrignano nasce una cittadella “indipendente” di 200 ettari, che sotto la sua apparenza “salvifica” nasconde un sistema patriarcale costruito su quanto Basaglia ha sempre cercato di destituire: «l’ideologia della morte come soluzione alle proprie contraddizioni». A Sanpa tutto ruota intorno a un uomo forte, comunicativo, empatico, capace di far leva sulle buone intenzioni che lo animano, cioè salvare gli emarginati abbandonati dallo Stato. Ascoltandolo si pensa che abbia ragione, senza alcuna ombra di dubbio; ma la docuserie suscita un dilemma “quasi” irrisolvibile: per salvare una persona è lecito usare la violenza?

Umanamente, no. Considerando il contesto, la risposta potrebbe non essere così ovvia. Solo nel 1990, con la legge 162, vengono formalmente istituiti i Servizi per le Tossicodipendenze (SerT), dopo un ventennio di vuoto istituzionale, durante il quale furono le comunità terapeutiche, nate per iniziativa personale, a cambiare la percezione della società nei confronti dei tossicodipendenti: da esclusi e disturbatori, a persone bisognose di sostegno psicologico e morale. Non a caso anche il DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, utilizzato a livello internazionale) ha gradualmente introdotto i disturbi da uso di sostanze nelle revisioni succedutesi a quella del 1968. 

Muccioli è uno dei pochi che si mette a servizio per tentare di salvare i “bucati” sbattuti per le strade, lui che all’inizio si propone come il “santone del Cenacolo”, una ostentata (e ridicola) reincarnazione di Cristo, quasi a eguagliare se non superare i preti che prima di lui si accorsero che qualcosa mancava, e bisognava intervenire. Da uomo astuto capisce subito cosa ha tra le mani, impegnando tutto il suo corpo massiccio e mediatico a un tempo per attuare una piccola “rivoluzione”, nonostante i metodi poco leciti: salvare dalla morte certa centinaia di persone. Autoproclamatosi profeta messianico, diventa medico, terapeuta, psicologo, salvatore di una intera generazione di perduti, che, senza di lui, oggi sarebbe sparita, inghiottita nel silenzio della droga. Privo di qualsiasi competenza in materia, anticipa i tempi quando capisce che il lavoro e il sostegno di una comunità possono essere salvifici; che poi si sia perso nelle maglie strette del potere e dell’affermazione di sé è un fatto: come padrone esigente implode nella sua creatura, che riesce comunque a sopravvivergli. 

Il suo operato azzera quanto raggiunto da Basaglia: da una parte gli abusi dei manicomi giudicati illegali dalla legge 180, dall’altra le sue ingerenze violente per le quali non si è mai intervenuti. L’esperienza di Muccioli mette in luce tutte le contraddizioni di una società incapace di essere trasparente sulle proprie zone d’ombra, garantendosi risparmio in denaro e ricerca scientifica nel momento in cui si affida a un uomo senza alcuna specializzazione, che però è un mattatore mediatico e sa bene come utilizzare le parole e i gesti.

Qualcuno ha visto in Muccioli l’alter ego di Giorgio Rosa. Entrambi fondatori, nel riminese e a soli dieci anni di distanza, di due stati “indipendentisti”; uno liberale e pacifico (quello dell’Isola delle rose), l’altro patriarcale e un po’ manesco (quello al quale si accede percorrendo Via di San Patrignano).

Qualcun altro ha scorto in Sanpa la risposta italiana a Soul, laddove la comunità diventa il daimon dei tossicodipendenti, capace di salvarli dalla dannazione e restituirgli quella scintilla vitale senza la quale la morte è assicurata. In realtà, le tre storie non hanno molto in comune, soprattutto per via di quel torbido che sottende alla comunità di San Patrignano e al suo fondatore. Sanpa non è infatti una narrazione di redenzione dalla droga, o di un sogno utopico e un po’ bizzarro. La docuserie racconta il potere; delle persone, delle sostanze, della politica. E della violenza.