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Libri

Sputare fuori il “gigante d’inchiostro”

A proposito di “Storia aperta” di Davide Orecchio

di Niccolò Amelii / 11 luglio

Ci sono libri che sorprendono, innanzitutto, per ambizione artistica e risoluzione formale. L’ultimo lavoro di Davide Orecchio – Storia Aperta – pubblicato da Bompiani l’anno scorso, è certamente tra questi. Opera mondo o, che dir si voglia, romanzo massimalista, Storia aperta porta a compimento quella ricerca storico-romanzesca iniziata dall’autore undici anni fa, con la raccolta Città distrutte, opera d’esordio che lasciava già presagire il talento compositivo, la qualità combinatoria e il germe poetico sviluppatisi poi progressivamente in una traiettoria narrativa che trova ora il suo luminoso apogeo. Storia aperta è, infatti, un romanzo realmente onnivoro, che vampirizza e si nutre di documenti, lettere, articoli di giornale, fonti storiografiche, diari, materiali editi e inediti, per rielaborarli entro un ampio spazio diegetico. La complessità del meccanismo che fa reagire, come fossero contraenti duttili e sapientemente maneggiati, fiction e non fiction in un costante andirivieni polifonico, capace di intersecare la voce narrante e le numerose voci (anzi, le parole) storiche ri-narrate, non appesantisce però la struttura soggiacente, saldamente studiata e congeniata (confessa lo stesso Orecchio, nella Nota finale, di aver pensato e lavorato a questo libro per circa vent’anni).

Storia aperta si configura, allora, come un romanzo stratificato, al contempo ostico, ostinato e affascinante, che sembra rispondere internamente a interrogativi urgenti di natura diversa ma complementare. La biografia “infedele” di Pietro Migliorisi, uomo-tipo del Novecento, appartenuto al secolo breve e dal breve secolo traviato, malmenato, vessato, funge da pretesto (con accezione positiva) per inaugurare uno scavo eziologico di matrice archeo-filiale: in altri termini, un’indagine a ritroso per risalire all’origine di un secolo, il XXI, e all’origine di un padre, Alfredo Orecchio. La sua figura storica abita, attraverso le sue stesse parole e i suoi documenti – utilizzati come fonti primarie dal figlio narratore-storico –, il suo alter ego fittizio (come accadeva anche nel racconto presente in Città distrutte), in quanto baricentro costitutivo, parte integrante del suo “doppio” romanzesco, con cui però non arriva mai a combaciare totalmente.

Alle fondamenta del libro s’inscrive dunque il tentativo di riattivare un’eredità negata, fatta di silenzi, ellissi, mistificazioni, che si esplica nella ricostituzione puntigliosa dell’enigma paterno, effettuata non solo dentro le pieghe della Storia “ufficiale” di un’intera nazione, ma anche all’interno dei pieni e soprattutto dei vuoti di una storia famigliare che inevitabilmente si dipana, oscillando tra verità e contro-verità, nel sottofondo dell’opera. Del resto, nel perimetro trasfigurativo garantito dall’invenzione romanzesca è possibile ridare vita ai morti, tornando a interrogare le azioni e i pensieri che hanno caratterizzato quei morti quand’erano vivi; è possibile anche nominare le ansie, le paure, le disgregazioni rimaste mute, forgiarle in seno a una nuova veste, utilizzando contestualmente – come fa Orecchio con piena sicurezza – la memoria, propria e degli altri, e le fonti scritte, come strumenti ausiliari atti a ispessire il portato epistemico dell’opera.

Storico di formazione, Orecchio parte da un paradigma fattuale e referenziale – il materiale messo a disposizione da un’approfondita ricerca documentaria che si esplica nell’ingente e capillare apparato bio-bibliografico posto a conclusione del romanzo –, ma vira verso una postura autoriale da appassionato bricoleur, ampliando la principale vena storico-interpretativa, anche per stemperare l’ossessione monocentrica che informa la sua recherche letteraria, mediante le soluzioni arricchenti innescate dalle operazioni puramente romanzesche: ad esempio l’utilizzo caleidoscopico di un’onniscienza narrativa che mescola senza soluzione di continuità la prima persona singolare, la seconda persona singolare e la prima persona plurale, in un carosello di geometrie relazionali (autore-lettore-testo) che trova perfetta aderenza alle maglie di un discorso romanzesco costruito a mosaico, in cui le virgolette, siano esse alte o caporali, rivestono un ruolo fondamentale per comprendere quando l’afflato immaginativo, sempre però dominato da intenti di verosimiglianza, lascia il posto alla ricognizione storiografica e viceversa.

A partire da questo doppio movimento contrastivo e speculare, coniugato su più livelli di senso – storia e Storia, fatto e fittizio, individuale e collettivo –, Storia aperta diviene un vero e proprio palinsesto biofinzionale, una macchina narrativa profondamente inter- e macro-testuale, che indaga i chiaroscuri di un secolo che non ha mai smesso di finire attraverso le verità – costruite e decostruite, apparentemente cristalline e poi improvvisamente sbugiardate – di un uomo che rappresenta una sorta di “figlio archetipico” di questo stesso secolo, uno tra i tanti, uno come tanti: da ragazzo aderenza convinta all’ideologia fascista, arruolamento spontaneo nella guerra d’Etiopia, poi a poco a poco il ripensamento radicale delle proprie convinzioni politiche, la susseguente fedeltà alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, sino alla devozione totale verso una nuova fede ideologica, quella comunista.

Figlio archetipico, dunque, Pietro Migliorisi, ma anche figlio spezzato, da tutti ingoiato e poi rigettato, “bambino diacronico” incapace di scrivere seppur abitato da un’immarcescibile urgenza d’espressione, incapace di sentirsi parte di una comunità seppur completamente dedito a quella stessa comunità, preda di rimorsi e nostalgie furenti, circuito da fantasmi che si riaffacciano senza chiedere permesso e ne minano la già precaria fisionomia identitaria, padre di un figlio mai visto e marito di una moglie che gli impone il divorzio per supposte divergenze politiche (non gli perdona d’essere diventato comunista) e si rende invisibile ai suoi occhi, custode di una verità così tragica da non poter essere rivelata, pena una sofferenza ancora maggiore.

In Storia aperta Orecchio (ri)costruisce una storia fatta di più storie – la sua personale, in quanto figlio di un padre che assume le sembianze multiformi del personaggio principale; quella di un secolo, che ha sacrificato la libertà degli uomini sull’altare di ideologie violente, dogmatiche e repressive; quella di una nazione, irretita dalla propaganda fascista, ferita dalle continue lotte intestine, contaminata dalla malapolitica, incapace di rivoluzionarsi, affezionata alla propria secolare decadenza – partendo dalle omissioni, dalle mancanze, dalle bugie, insomma, dall’amara constatazione di un ampio deficit di conoscenza che invece di invalidare alla radice ogni possibilità di riavvicinamento postumo costituisce l’innesco primario della quête romanzesca. E in questa storia le imperfezioni non vengono imbellite e sublimate secondo i dettami imperanti dello storytelling, che tutto e tutti vorrebbe rendere empatici e rassicuranti, ma rimangono esposte così come sono. Orecchio non rifinisce le aporie emergenti tra fatti e controfatti, non smussa le incertezze sorte sul limine incerto verso cui collidono versioni differenti di un’unica verità potenzialmente accertabile, non “chiude” la sua opera, consegnandola a quella unidirezionalità che di certo viene consigliata nei corsi di scrittura, ma asseconda il disegno acuminato messo in forma dalle smagliature, dalle ferite ancora aperte, dalle abrasioni, dalle asprezze, dai traumi della memoria, introiettando nell’architettura formale dell’opera i tormenti e le lacerazioni di un uomo che finalmente, in virtù dell’operazione demiurgica compiuta dal figlio-scrittore, ha potuto sputare fuori il suo “gigante d’inchiostro”.

In tal senso, Orecchio compie un’abile operazione da ventriloquo per ridare voce a un passato muto, sbiadito su documenti impolverati che riempiono archivi che non interessano più a nessuno, e per ri-scrivere e ri-significare la biografia di un padre-sfinge, che poteva essere molto di più di ciò che è poi realmente stato, per vagliarla e soppesarla, restituendole spessore tragico e piegandola alle proprie mire conoscitive. Questo mediante un lavorio romanzesco che ne moltiplica le implicazioni narrative, ingrossando il valore artistico di un’opera a tutti gli effetti neomodernista (come ha già sottolineato Andrea Cortellessa), che non si preoccupa di adottare, per oltre cinquecento pagine, uno stile liricizzante, altamente figurativo, sfranto e compulsivo, fondato su frasi brevi, a volte nominali, spesso ridondanti, semanticamente pregne, rigorose nella loro ritualità quasi liturgica (la frantumazione della sintassi, del resto, sebbene conferisca al dettato un respiro poco arioso, permette di evitare i rischi insiti nella prolissità, nella verbosità, nell’affastellamento). La sfida alla Storia è anche una sfida al lettore, non potrebbe essere altrimenti.

 

(Davide Orecchio, Storia aperta, Bompiani, 2021, 672 pp., euro 22, articolo di Niccolò Amelii)