Le ho mai raccontato del vento del Nord

di / 20 aprile 2011

Emmi e Leo sono una coppia.
Una di quelle che divora i giorni, eterna ogni attimo e contrappunta le attese di poltrone sempre strette, in cui prima che l’altro sia arrivato, si scivola per terra aspettando un suo saluto.
Emmi e Leo si sentono. Sempre.
In ogni modo. Negli angoli che il mondo non conosce. Quelli che battono di altri respiri, di latitudini all’ombra, quelli che loro stessi lambivano di rado, per paura della polvere o di vederli illuminati.
Emmi e Leo hanno comprato un’isola, perché la strada li avrebbe storditi.
Un ettaro di terra in cui incontrarsi in gran segreto, al riparo dalle cose, dove il vento del Nord scompiglia i pensieri, gratta anche il sonno, dove nessuno descriverà il loro amore, perché non ha nome, non vuole aggettivi, scalcia davanti a qualsiasi battesimo.
Emmi e Leo sanno quello che basta: che ognuno è un bisogno dell’altra, che litigare, provocarsi, vuol dire solo cercarsi di più. E che amarsi al buio, forse, vuol dire amarsi più forte.
Perché sanno a memoria il cuore dell’altro.
Perché si sentono appunto. Come un richiamo.
Ma non si vedono. E non perché gli occhi non possano. Ma perché non si sono mai visti.
Pescati dal caso in mezzo alla rete. Quella di Internet. E poi decisamente irretiti.
Un indirizzo mail sbagliato, una “e” di troppo. E un messaggio di posta confluito di colpo in un’altra casella. Ecco fatto. Sperimentando sulla pelle quanto intero subbuglio può creare una singola lettera.
Così comincia e così prosegue Le ho mai raccontato del vento del Nord (Feltrinelli), primo romanzo pubblicato in Italia dell’austriaco Daniel Glattauer.
Un romanzo bevuto d’un fiato in uno scambio di mail, avvincente e pieno d’astuzia, dimostrazione quanto mai inconfutabile di come un dialogo fitto e ben cesellato, un botta e riposta che non risparmia opinioni, possa comporre una trama perfetta, solida e autonoma, senza innescare mai nostalgie di schemi più classici.
Un gioco sottile, in cui ognuno studia i confini dell’altro con la mano impigliata nei propri, fino al round successivo, in cui tutto cambia.
Emmi e Leo sono due schermidori, si espongono un po’ per sferrare un affondo, sperando in silenzio che l’altro si arrenda e poi si ritraggono. Pregando che giunga la prossima mossa.
Perché l’amore si teme. Ovvero teme se stesso. Come tutte le grandi avventure.
E allora s’inizia a danzare. Qualche passo in avanti e poi troppi indietro. Talmente tanti che a volte nemmeno si parte.
Si resta lì, sul davanzale di uno schermo, sporgendosi il minimo, costruendosi il massimo, plasmando al sicuro i propri sorrisi, i propri dissensi. Scegliendo di non viversi mai. Convincendosi che l’aria del limbo, solo quella, sia la migliore. Che la distanza renda invincibili.
Così credono Emmi e Leo, così si amano, spiandosi bendati, fin quando la realtà non disordina la stanza, fin quando scriversi non sarà più un rifugio, ma forse un alibi, forse una trappola, ma di certo non la soluzione. E il lettore passeggia sulle loro parole: strategiche, acute, vibranti, paesaggi di frasi in cui il loro incontro è sempre ad un passo. E sempre lontano.
Come ciò che intimamente si vuole. E che abbiamo terrore di guardare negli occhi.
 

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