“Lucinella” di Lore Segal

di / 28 ottobre 2011

Chi sono i poeti? Che tratti esibiscono in mezzo alla faccia?
Sono stempiati e ricurvi come Celan? Flosci e occhialuti come Eric Fried, con due muraglie di lenti per ripararsi dal mondo? Paffuti e fumanti come Prevert?
Come si riconoscono? S’intercettano per strada come una scia malinconica e magari il migliore ha il passo più sghembo? O sono invisibili, un’onda sull’altra a bagnare la strada?
Lucinella (Edizioni Cargo), ultimo romanzo di Lore Segal, sembra nato per rispondere a queste domande. Salvo poi eluderle tutte.
La signora e padrona del titolo è una poetessa americana di circa trent’anni, immersa in uno spazio lontano da ogni cosmo, in un salone in cui è difficile scovare anche il divano, dove soffia il suo tempo temperando matite e tormentandosi per un soqquadro incurabile. Il suo.
Lucinella ha una vita arricciata, maldestra, incoerente, la stessa che le permette di comprare decine di blocchi senza toccarne nessuno, avendo sempre bisogno dell’ultimo, quello non acquistato.
Sa straziarsi per un distico mancato, perché “quello che non può fare è lasciar perdere”, perché qualunque sentimento, anche il vuoto da contemplare a bocca aperta, può e deve essere scritto.
E poi Lucinella non è sola. Intorno a lei orbita un ecosistema di folli creature, abitanti di un documentario naif, stralunato, trasognato, che si trascina di villa in villa, di festa in salotto, per riunire pensieri impossibili e poi farli collidere.
C’è Maurie, fascinoso e panciuto editore, che si addormenta sempre con un manoscritto accoccolato sull’addome, perché è il suo vero animale domestico; che sa di nutrire un’elite e lo rimarca in ogni occasione, che usa lo snobismo come madrelingua.
C’è Ulla e la sua scorta di complimenti affilati, indispensabili per tamponare la sua bellezza imperdonabile. E renderla accettabile, almeno per un po’.
C’è Winterneet e la sua stella al tramonto, Pavlovenka coi i suoi venti eversivi che ammutinerebbero volentieri l’inglese imperialista, ma per esprimere il concetto lo devono onorare.
C’è William soprattutto, in compagnia del suo collo sottile, della sua nuca scheletrica, che chiedono a Lucinella di sposarli al gran completo, mentre moltiplicano il caos della sua stanza e del suo cuore.
E di fronte e accanto a lei, all’improvviso, da una botola notturna, dal velluto di un tappeto, sbucano altre due donne: la Lucinella giovane, tremula e aquilina, ingombrante nella sua magrezza, dove ogni curva è nel posto più sbagliato; e la Lucinella anziana, che confonde le parole tra la tosse, che sorride di ciò che dimentica.
È un universo strampalato il loro, in cui la sola missione sembra quella di cianciarsi addosso, discorrere e poi inferocirsi per problemi incomprensibili, distanti da ogni tiepida fatica del reale.
Per un pubblico che forse non li ascolta più.
Non hanno mani stanche e piedi gonfi, ma teste impolverate di contraddizioni, zeppe di paure mortali, tra tutte quella di non essere nessuno, di venire ignorati o non invitati, perché è il gruppo a conferire lo status di esistenza, perché sono loro l’audience di se stessi.
E l’autrice sa dipingerli con una grazia immane, con un’ironia appuntita che s’insinua in mezzo ai versi ed elegge il non senso come regola del gioco.
Non è facile maneggiare la poesia. Sa essere tagliente per dita inesperte.
Ma la Segal, coi suoi freschissimi 83 anni, non solo ne è uscita indenne. È riuscita a regalarci un compendio di stile ed arguzia, a smascherare i falsi dèi dietro un po’ d’inchiostro e comunque, nonostante tutto a farceli amare fino all’ultima pagina.

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