“La Fattoria delle Magre Consolazioni” di Stella Gibbons

di / 12 marzo 2012

Essere donna. Lotteria cromosomica e niente di più. Testa anziché croce. Accessori che spuntano al posto di altri. E che in certe latitudini comportano il margine. Un bel recinto caldo dove attendere i consensi, mettere a bollire i propri sogni e vederli evaporare, tanti passi indietro rispetto a ciò che accade.
Essere donna ottant’anni fa. E scrivere. Ma non la lista della spesa o un biglietto adorante del proprio uomo-signore. Rilevare le cose del mondo. E quindi prenderne parte, analizzarle, commentarle, apporre il segno. Eviscerare. Perché il senso, a volte, va estratto ancora vivo, mentre nuota in mezzo al resto. E poi far ridere. Ordinare i pensieri, sagomarli a tal punto che il perimetro finale pizzichi lo stomaco.

Ricapitoliamo: femmina, autrice e anche divertente. Eh no, stavolta è decisamente troppo, un eccesso di pretese condensate addosso allo stesso nome. Quello di Stella Gibbons, poetessa, giornalista e romanziera.
Che ha faticato molto meno a comporre che a farsi leggere. Spettinata da polemiche continue, osteggiata e censurata in Irlanda, per aver liberamente parlato di contraccezione. Ottant’anni fa. Ottenendo in compenso di veder abortito il suo successo. E così, quello che sembra un libro lezioso e delicato, un esercizio di stile donnesco con spirali e volute di vanità espressiva, può rivelare molto di più. Siamo arrivati. Ci troviamo di fronte a La fattoria delle magre consolazioni. Ma non siamo soli. A bussare alla porta, senza un refolo di timidezza, c’è Flora, un’orfana ventenne con in mano il futuro e una piccola rendita.

Abbiamo davanti una “bambocciona”? Solo una figlia della sua storia. Ha imparato parecchio, si è formata alla grazia e soprattutto al superfluo. Sa fare molto, tranne il necessario. Ma crede fortemente che il necessario non serva. Crede che basti appoggiarsi, appollaiarsi sorridente sulla vita degli altri, offrendo in cambio quella spicciola somma. Così, prima approda a casa di un’ amica, che pur essendo mantenuta da un affabile destino pieno di rose, velluto e corse di cavalli, ritiene opportuno che lei inizi a lavorare, che asciughi il suo tempo grondante di ore vuote. E poi si mette in palio. Invia lettere alla scuderia di parenti rimasti. Finché qualcuno dalle vaghe campagne del Sussex, non le risponde e la incuriosisce. Non lasciandole altra scelta, se non provare quei passi. Trasferirsi su quel ramo, quello che trema di più. Quel momento, quel suo ingresso borghese tra i Desoladder innesca un racconto pittoresco e surreale. Ancora una volta il detonatore è un incontro improbabile. L’impatto tra due civiltà. Il cosmo cittadino di Flora e un contesto familiare sgangherato, che cade a pezzi come la stalla dove sbuffano le bestie, come le vacche che perdono una zampa, senza che nessuno se ne accorga. Una vecchia zia ormai deragliata, che impugna il clan intero col suo carisma oscuro e tutto un nugolo di personaggi fumettistici, inverosimili, quasi atemporali. Seth e Reuben, giovani forti e stracciati, che ammazzano alba e tramonto mentre “gallottano”, qualsiasi cosa poi significhi. La cugina Judith, con una trama di capelli aggrovigliati, immersa in vestaglie che hanno scordato colore e missione, tra tende ingolfate di polvere che otturano persino se stesse. Sguattere che partoriscono al fiorire del succhiodendro, mucche svogliate e aiutanti sordo ciechi. Un carnevale sbocciato di esseri eccentrici, dove la protagonista riuscirà a sconvolgere il disordine.

Dove la nostra autrice, allora di soli trent’anni, sa sguazzare con scioltezza, coniando vocaboli e soprannomi, battezzando paesi come «Lamentum» o «Tremarellum», «Campi della flaccida ortica» e bovini chiamati «Rozza» e «Senzascopo». A dimostrare che anche le parole riconoscono gli oggetti, nascendo prima di loro e scegliendoli con cura.
Una vera sottile intelligenza femminile, che per questo sa infilarsi tra le crepe, le espone alla luce e le interpreta senza arrossire. Stella come Flora ci regalano uno scorcio letterario di pura delizia. Un privilegio che è quasi peccato.


(Stella Gibbons, La fattoria delle magre consolazioni,  trad. di Bruna Mora, Astoria Edizioni, 2010, pp. 287, euro 17)

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