“Il corridoio di legno” di Giorgio Manacorda

di / 4 maggio 2012

La poesia è una forma di rivolta. Perché sceglie le parole solo per scassinarle. Le manomette, ovvero appoggia la mano per turbare quell’ordine scabro in cui le ha trovate. La poesia, quella vera, quella che non cola da una rima baciata e non è una stalattite d’inchiostro su un biglietto d’auguri, ecco, quella poesia sa benissimo che gli equilibri s’affacciano per essere rotti e cercati di nuovo. La poesia si ribella, alla morale della sintassi, alla morfologia di una pagina. Ed entra solo per sconvolgerla. Come fa l’amore. Come fa la rivoluzione. Non bussa, non avvisa. Scardina e basta.

E se la poesia è una forma di rivolta, forse anche la rivolta può essere una forma di poesia. L’autore incorniciato in queste righe, s’intende di entrambe. Perché camminano dentro il suo sangue. Settantuno anni di vita letteraria, di grandi incontri, di storia intensa. Figlio di un partigiano, poeta e amico di Pasolini, Moravia, Zavattini e Bassani. Di uomini impegnati a esserlo e non a portarsi in giro sperando che qualcuno li indichi per strada. Giorgio Manacorda, esperto e docente di letteratura tedesca, critico e scrittore, campeggia quest’anno tra i finalisti dello Strega con il suo Il Corridoio di legno (Voland).

Romanzo crudo, di quelli che non scivolano in gola, se non dopo molti bicchieri d’attesa.

Un poliziotto sbarca a Berlino per un’indagine, una di quelle che travalicano fin dall’inizio il perimetro euclideo del proprio lavoro. Il collegio in cui approda è lo stesso in cui ha inchiodato la sua adolescenza, quei mattoni lo hanno visto tremare, leggere e sorridere. Sono stati il teatro delle sue prime amarezze.
Esattamente lì è cresciuto insieme ad Andrea e a suo fratello Silvestro. Andrea appartato e intelligente, Andrea inadatto alla ginnastica, troppo magro e friabile, vittima da applauso, obiettivo eccellente di tutte le angherie del gruppo, di quelle frustrazioni calcificate nelle vene. Che dovevano fluire, per non schiacciarli tutti. Andrea portato in bagno nella notte, attraverso il corridoio, spogliato come se non fosse già abbastanza nudo, arroventato con l’acqua più calda e poi ghiacciato dal getto contrario. Andrea che dopo aver subito non è stato più lo stesso. Andrea che ha capito di dover fare il salto, di coprire quel dirupo con un volo. Di doversi ribellare, di scrivere i suoi versi sov-versi-vi. Nella sua storia e in quella maggiore.
Andrea, una volta in Italia, ha abbracciato la lotta, quella armata. E così ha fatto anche Silvestro, col carattere adatto per essere un leader, per abbattere il Sistema. Ma chi combatte, come chi sceglie la poesia, manipola rischi, anche quando riposa, anche quando non lo sa. Chi combatte non può dire “domani” con troppa certezza. Silvestro sparisce, inghiottito da una bolla di ipotesi vaghe.
E Andrea torna a Roma dopo un esilio di tormento, per capirne di più. E mentre setaccia risposte, pesca altre domande. Qual è la verità e dove abita realmente? Chi ha ragione, colui che si sente in diritto di uccidere per un ideale? O colui che reputa la vita un valore superiore a tutti gli altri, esorbitando da ogni magnifico scopo supremo? E cosa sono gli ideali, un surrogato di Dio per chi non gli crede? Un altare di ferro e pallottole? E cosa resta dopo l’utopia, dopo gli scontri e il furore? Solo il terrorismo? O peggio ancora la polvere?

Dubbi che diventano tagli, graffi sulla mente di Andrea e su quella dell’agente che indaga. E ovviamente sul lettore.

Una scrittura maestra, piena e matura, che sa dosare ritmi e battute. Una scrittura che conosce il potere della poesia anche quando tocca la prosa. Una scrittura a cui bastano pochi tratti per pennellare il dolore, la disfatta che comincia dall’interno, prima di farsi sociale, un «male privato che si trasforma in pubblico».
Una vicenda sapiente, che racconta comunque il premio di scrivere. Al di là di quello che deciderà lo Strega.


(Giorgio Manacorda, Il corridoio di legno, Voland, 2012, pp. 159, euro 13)

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