“La meccanica del cuore” di Mathias Malzieu

di / 15 maggio 2012

Fa più freddo al di là del termometro. Fa più freddo quando la temperatura è scandita da chi la respira. Fa freddo in certi posti per congelare il palco, cristallizzare spettatori e poltrone in attesa che accada qualcosa. E qualcosa accade. Il 16 aprile 1874 è la notte ghiacciata in cui tutto comincia, sulla collina più appuntita di Edimburgo. Nasce Little Jack, da un grembo già stanco di lui. Nasce il protagonista del terzo romanzo di Mathias Malzieu, La meccanica del cuore (Feltrinelli, 2012).

Nasce piccolo e friabile, un bimbo di tufo, che può sgretolarsi anche solo guardandolo. Che può sgretolarsi da solo. Perché la madre lo abbandona, nella casa dell’ostetrica-strega che lo estrae dal silenzio. La dottoressa Madeleine accoglie figli non voluti, ospita pance ingrate, che pungono quando si aprono.

Quando Jack sbuca dalla sua tana, piange flebile, piange un vento sottile. Rischia di appassire prima ancora di essere sbocciato. Il suo cuore è innevato, così gelido che non può sopravvivere. E allora bisogna industriarsi, bisogna intervenire. La levatrice decide d’incerottare la sua debolezza, di aggiungere a quella carne un meccanismo di legno e rotelle: un orologio. Un apparecchio che misuri di scatti il pericolo grande, quello artigliato: l’emozione.

Jack cresce diverso, ticchetta sotto la giacca e la gente non capisce. E quando capisce inorridisce e se ne va. Oppure sogghigna, ma in ogni caso non vuole vicino a sé quel rumore sconosciuto, il ricordo strozzato dei propri bisogni. Nessuno lo cerca, nessuno lo adotta e Madeleine continua a proteggerlo: dalla scuola, dalle offese, dal suo corpo minuto e incapace di esistere senza graffiarsi. Mentre le lancette gli recintano le impronte.

Ma equipaggiarsi non basta, non basta uno scafandro per la tragedia nucleare di un giorno qualunque. Di una realtà senza controllo. Arriva l’amore, quello maiuscolo e cubitale, quello che sembra sempre più adatto ad abitare la fiction, che ad avere un vero numero civico, di porte e mattoni nei nostri destini. Quello che leggiamo ogni volta per rammentarci che è possibile, che scavando parecchio, sotto chilometri e lapidi d’indifferenze predigerite, di egoismi pret-a-porter, forse l’Altro c’è davvero, perché siamo ancora in grado di coglierlo dall’albero proibito.

Jack incontra Miss Acacia, ballerina di flamenco andalusa. E da quell’attimo tutto è riscritto. Ciò che conta è rivederla, è riabbracciarla, oltre gli anni e i paesi. Ciò che conta non è il suo ingranaggio. Ma i minuti con lei dentro. Senza interrogarsi sulle conseguenze, senza scomporsi perché il cucù inizia a tentennare, perché ogni secondo è terremotato. Il gioco di Jack non consulta il regolamento. Strapazza gli incastri sfidando il dolore, ignorando le paure della sua madre a/effettiva, perché è l’unico sistema per essere vivi. Accendere il limite, accarezzarlo e vederlo tremare. Sentirsi a un ciglio dalla fine, a uno schiocco dall’ultimo battito, vuol dire essere nel mezzo, essere svegli tra le cose e muoversi con loro, patire con loro. Tra il grano che soffia e le stelle che bussano. Amare vuol dire sabotarsi, spingersi oltre quello che siamo in grado di fare. Per scoprire che forse quel cuore di latta, quel marchingegno di ferro e sovrastrutture, è solo un archibugio per difenderci dal nostro sangue, dalla nostra condizione genetica: passare attraverso. Essere nel tempo perché il tempo ci scuota, fino a esaurire tutti i granelli. Piccoli uomini come clessidre capovolte.

La storia di Malzieu, raccontata come una favola, gotica e surreale, evoca il potere dei sogni e delle immagini, come quelle che sgorgano da George Méliès, amico di Jack e inventore del cinema fantastico, perché il desiderio, la volontà letterale di uscire dallo spazio, è il primo vero autore dei nostri progetti.

Si sente quasi il sapore di Tim Burton tra queste righe, di velluto e ciniglia con abbondanti cucchiaiate di miele, dove la sofferenza è una «zuppa di porcospini», le nuvole sono di zucchero e uno spicchio di luna può diventare un’amaca. Ma è Luc Besson che ha scelto di farle agitare sul grande schermo in versione 3D.
Confermando anche con la sua lingua che il vero danno per un cuore umano è calcolare al millesimo le sue pulsazioni, è evitare di ferirsi con le schegge della vita.


(Mathias Malzieu, La meccanica del cuore, trad. di Cinzia Poli, Feltrinelli, 2012, pp. 160, euro 15)

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