“Guarda l’uccellino” di Kurt Vonnegut

di / 22 ottobre 2012

Ha visto impazzire una città, l’ha vista farsi così piccola da nebulizzarsi in un pulviscolo di schegge.

Un’insalata di grida e d’insetti. Dove tutte le certezze architettoniche sciamano in fretta sotto un primo boato, che porta con sé fin troppi fratelli. Era a Dresda nel febbraio del ’45, mentre sparivano persone e palazzi. Un incantesimo al contrario. 135.000 nomi diventati  un ricordo in uno scoppio e qualche giorno. Forse anche questo gli ha insegnato a scrivere, a raccontare l’umanità nel modo che lo ha distinto e poi celebrato. A cinque anni dalla sua scomparsa, Kurt Vonnegut è ancora qui, su pagine fresche di casa editrice, con la raccolta di racconti Guarda l’uccellino (Feltrinelli).

La sfilata s’inaugura con “Confido”, geniale apparecchio che promette miracoli, messo a punto da Henry Bowers. È un uomo qualunque, sposato in modo altrettanto qualunque, che crede di poter saltare il fosso, di scavalcare il suo anonimato attraverso una brillante invenzione. Una scatola di latta, con un filo e un auricolare. Chiamato appunto “Confido”, come un arnese mitologico, metà cane e metà confessore, perché (già allora), in una società che cresce ma non si guarda negli occhi, il desiderio massimo è qualcuno che ci ascolti, qualcuno che s’insinui nel nostro orecchio e custodisca i nostri pensieri. Confido parla e intuisce, dal canale uditivo si cala giù e scava nelle grotte dei timori, nei pozzetti di dubbi e insicurezze. Da lì  estrapola il peggio, i giudizi funesti che dovrebbero restare sommersi. Sobilla, scopre il dorso ammaccato delle nostre debolezze. Ellen, la moglie di Henry, si sente dire di non essere abbastanza felice, di non aver chiesto il giusto, di essersi solo accontentata dipingendosi addosso la smorfia migliore, che non è riuscita più a staccare. E quindi la fine più saggia è sotterrare Confido, è non sperare di poter cambiare vita. È lasciare sepolte certe voci, perché potrebbero trasformarci. O forse fare solo affiorare la meschinità assoluta che ci fa compagnia sotto metri di cuscini e d’ipocrisia.

Si prosegue con “Fubar”, storia ennesima di un uomo ordinario, Fuzz Littler, impiegato in un’azienda che non ha posto per lui e lo relega in uffici inappropriati. Il solo diversivo è rappresentato dall’arrivo di una giovane aiutante, eccitata dal suo primo giorno, che constata però presto quanto in quella stanza non ci sia niente da fare. E per Fuzz quel sorriso sgonfiato è come uno specchio. Si riconosce nel suo grigiore, nel suo eterno «non l’ho mai fatto», nella pungente vacuità del suo lavoro e di quel rumore intorno definito “vita”. Finché non comprende che probabilmente un’alternativa esiste.

Il racconto più lungo e più potente è “Il Club privé di Ed Luby”. La surreale parabola di Harve e Claire, una coppia colpevole di aver bussato alla porta sbagliata per festeggiare il proprio anniversario. Il locale frequentato solo una volta all’anno per benedire quell’occasione si è tramutato in un club privato, in cui i loro risparmi piccolo borghesi sono quasi un insulto. Il proprietario Ed Luby ha esteso il suo dominio a tutta la città e può permettersi non solo di cacciarli, ma anche di uccidere una donna e di accusare loro. Perché loro non hanno valore, sono avventori trasparenti, comparse senza peso di un film prodotto e diretto dalle sue ruvide mani di feudatario e criminale. Una vertigine d’insolubile ingiustizia, che rievoca Kafka e il suo Processo, un vortice inspiegato a cui diventa impossibile opporsi. Si viene risucchiati e si smette di pensare. Perché pensare ferisce. Harve e Claire conoscono il loro capo d’imputazione, ma non possono difendersi, perché l’intero teatro della faccenda e tutti gli attori orbitanti sono sotto scacco, prezzolati, corrotti, affabulati dai poteri maligni del signore e padrone.
Bisogna prendere le dovute distanze, sperare nell’onestà ormai labile e inattesaper poter intravedere un davanzale di salvezza.

Si prosegue conLabirinto di specchi”, la vicenda di un ipnotizzatore vinto dai suoi stessi trucchi; poi è la volta de “Il tagliacarte”, la storia di un uomo innamorato che torna a casa contando solo di stringere sua moglie e che si vede recapitare addosso un tagliacarte/navicella, da cui fuoriescono uomini miniaturizzati. Nel giro di poche ore incontra la verità di quelle creature misteriose e del suo matrimonio, che riesce a svanire come uno starnuto, quando sembrava l’unica conquista.

E ancora c’è il racconto che battezza tutto il libro, l’esperienza di un uomo avvicinato da un altro che promette di aiutarlo, ovvero di sbarazzarsi di un conoscente disprezzato, con un metodo infallibile. Utilizzando come sicari dei paranoici convinti di una congiura. Ma quando si ha a che fare con la follia, bisogna immaginare che quell’arma conosce bene la via del ritorno. E può ritorcersi contro, come se nulla fosse. 

Esatto, come se nulla fosse. Perché nel minimalismo acuto e inconfondibile di Vonnegut, tutto può accadere con semplicità. Anche l’evento più impensato è narrato con il clamore di una finestra che sbatte. Di una corrente leggera che attraversa ogni uomo. La radiografia inclemente del genero umano, le frustrazioni appese come giacche dentro ognuno di noi. Il firmamento dei nostri vizi incrollabili, delle nostre piccolezze che si fanno romanzo, letteratura. E che una sola battuta sa fotografare. Quattordici congegni perfetti, che sfilano e sfrecciano fino all’ultima riga. Non ci stupisce che da un tagliacarte sbuchino uomini, che un rapporto d’amore evapori in un attimo o che ne spunti un altro da premesse inverosimili. L’ironia di Vonnegut pungola e scandisce, senza perdere un colpo. Siamo lì anche noi, ad aspettare che parta il flash, a farci immortalare guardando l’uccellino.

 

(Kurt Vonnegut, Guarda luccellino, trad. di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, 2012, pp.249, euro 18)

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