“Chi ti credi di essere?” di Alice Munro

di / 5 febbraio 2013

Nel 1971 Ennio Flaiano aveva scritto sulla sceneggiatura di un documentario in 16 mm intitolato Oceano Canada: «È un Paese dove fuori dalle grandi città, la solitudine può essere la condizione normale, la chiave dell’esistenza. Un giorno sarà forse un territorio popolatissimo, oggi, teoricamente, chi infilasse un sentiero e continuasse ad andare, dopo quattro o cinquemila chilometri, sarebbe al Polo Nord senza incontrare nessuno».

Fin dalla sua prima raccolta di racconti, risalente alla fine degli anni Sessanta, Alice Munro ha scelto come sfondo, su cui ritrarre le dinamiche interiori dei suoi personaggi soprattutto femminili, la provincia canadese dell’Ontario. Piccole comunità periferiche con le loro frustrazioni, i loro conflitti, disagi e ottusità vengono così a costituire un mondo che si dilata a universo, un mondo dove abitano personaggi, di ieri come di oggi, a noi familiari, gli everyman come tanti altri con i mali e i tormenti di tanti altri.

La grande e pluripremiata scrittrice canadese ne indaga psicologie e comportamenti a partire da aneddoti ordinari, a volte insignificanti, facendo del genere narrativo di breve respiro il genere ideale per esaltare la forza espressiva della parola, la sua capacità non solo informativa ma anche performativa, ossia la sua efficacia trasformatrice e liberatrice.

Più volte paragonata a Čechov, la Munro, proprio come il vetturino Iona Potapov, protagonista del racconto “Malinconia”, talmente povero e solo da chiedere al primo passante la carità di ascoltarlo, sente questo insopprimibile bisogno di comunicare, rappresentare, narrare, ma a differenza di Potapov riesce a trovare modo di sfogarlo grazie all’attenzione che, a ogni nuova uscita, il suo pubblico, soprattutto di connazionali, le riserva.

Chi ti credi di essere? (Einaudi 2012), un’opera del 1977 che le valse per la seconda volta il Governor General’s Literary Award, si compone di dieci racconti autonomi ma che potrebbero essere altrettanti capitoli di un romanzo di formazione con protagonista Rose, una bambina, poi adolescente e infine donna matura, originaria di West Hanratty, una cittadina protestante e sbiadita dell’Ontario.

Nei racconti, che si segnalano per la naturalezza con cui, narrando storie dalle trame semplici al limite del banale, la scrittrice riesce a sfumare le diverse tonalità dei sentimenti umani, si srotola infatti la microstoria di Rose e della sua matrigna Flo, osservate da un narratore onnisciente nei loro minimi risvolti psicologici ed emotivi.

Inizialmente vediamo Rose, bambina testarda e capricciosa: «Oh quante arie ti dai, dice Flo, e un attimo dopo, Ma chi ti credi di essere, poi?». Quindi la osserviamo adolescente, intimidita dalla figura rigida e introversa del padre («Rose si vergognava anche solo di trovarsi in una stanza in sua presenza»), alla ricerca di una propria identità, ricerca resa ancora più difficile dall’ingombrante esempio di donna della matrigna, in realtà una donna scialba e ignorante che crede che Spinoza sia un ortaggio: «Perciò una parte della vergogna di Rose dipendeva dall’essere femmina ma per sbaglio, dal non essere destinata a diventare una donna come si deve». Dopo la morte del padre, Rose avrà la possibilità di lasciare Hanratty e andare in città, a Toronto, con una borsa di studio per il college dove incontrerà un giovane di buona famiglia, dottorando in storia, Patrick Blatchford.

Successivamente la riscopriamo giovane sposa, imprigionata in un matrimonio che la eleva socialmente ma che non la appaga. E ancora ci si rivelerà nella veste di madre divorziata, distratta da amori passeggeri e dall’aspirazione a diventare attrice famosa.

Infine la vedremo tornare nella sua cittadina natale per sistemare Flo, ormai affetta da demenza senile, in una casa di riposo e fare così i conti con se stessa e il proprio passato.

Affiorerà di nuovo alla memoria quell’interrogativo trasudante gretta superbia, «Chi ti credi di essere?», come quella volta che sfidò la maestra recitando, senza sbagliare una virgola, una poesia che i suoi compagni faticavano a imprimere nella mente anche dopo averla mandata per iscritto: «Non era la prima volta che qualcuno glielo chiedeva; anzi, quella domanda spesso assumeva alle sue orecchie la monotonia di un gong, e Rose non ci badava più».

Definita da Jonathan Franzen «la più grande scrittrice vivente del Nord America» in uno dei saggi raccolti in Più lontano ancora (Einaudi 2012) in cui ne esalta le doti narrative, Alice Munro, pittrice di dettagli, centillinatrice di quotidianità e fotografa di stati d’animo che tutti noi conosciamo, ci regala ancora una volta dei ritratti indimenticabili partendo dall’ordinario e un libro imperdibile. E ancora una volta la misura del racconto si rivela misura aurea nella sua penna.

(Alice Munro, Chi ti credi di essere?, trad. di Susanna Basso, Einaudi, 2012, pp. 280, euro 19,50) 

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