“Lor signori” di Gonçalo Tavares

di / 26 febbraio 2014

Ognuno di noi ha (o quanto meno dovrebbe avere) un conto aperto con la letteratura.

Ogni lettore è in debito. Con più emisferi narrativi. O magari anche con uno soltanto. Con quello spiffero lasciato bisbigliare in braccio ai tempi persi, sulle rotaie di un’attesa troppo larga. Mentre scongelavamo progetti sull’autobus o stavamo accantonando una giornata avariata, c’è stato un paragrafo, un dialogo, un gesto condito a dovere oppure soltanto una frase capaci di spolverarci gli occhi. Un detonatore di reazioni. Questo spesso può essere un libro. Uno schiaffo così forte da rovesciare il nostro mondo. Perché, in un mentre qualunque, qualcuno ci ha detto qualcosa nel modo esatto e scompigliante in cui avevamo bisogno di sentircelo dire. E il nostro modo di saldare il sospeso è tesaurizzare, farne bottino, anche senza materassi sotto cui seppellirlo. Poi ci sono altri che hanno il privilegio di saper scrivere.

Di restituire sapientemente il favore. Com’è successo a Gonçalo M. Tavares, nel sentiero immaginario tracciato da Lor signori (Nottetempo, 2014).

Uno strampalato “percorso a puntate”, una raccolta di quattro testi pubblicati tra il 2002 e il 2006, destinati a comporre un «Bairro utopico» e qui confluiti in un unico volume.

La promenade inizia con Calvino, con la levità impalpabile ed eccentrica che impasta le sue pagine. Calvino che crede nell’ironia dell’universo, nei meteoriti come forma di beffa fiondata sul suolo. Calvino che dorme in diagonale sul letto per attraversare meglio la notte, che setaccia poesia involontaria. Calvino per cui il quotidiano è un esercizio acrobatico e un capitolo zen. Convinto che anche il sole abbia voglia di leggere, che ogni sedia vada collaudata per offrire al prossimo quella più comoda, Calvino per mezzo di Tavares (come anche Tavares per mezzo di Calvino) snocciola frammenti di leggerezza inestimabile, in cui a volte basta il cervello a innaffiarci di emozioni. Un esempio per tutti: «Avere una vita propria non era – per il signor Calvino – soltanto passare attraverso esperienze tribolate nel gioco degli avvicinamenti e allontanamenti: per lui, chi non aveva pensieri non aveva una vita propria».

Basta svoltare l’angolo e spunta il signor Kraus, che affida alla cronaca le roboanti astrusità del Capo e dei suoi due Assistenti, perché ha compreso alla perfezione che «l’unico modo oggettivo per commentare la politica è la satira». Il risultato è un reportage del ridicolo, dove l’ottusità si fa orchestrale e poi rocambolesca. Una sinfonia di assurdità spinta all’estremo, in cui ogni decisione è frutto della vorace inconsistenza di chi governa senza avere testa. Un Capo che di maiuscolo ha solo l’iniziale del suo nome; il resto è antologia del nulla. Un Capo che si pulisce il naso sulle cartine del suo Paese, che cerca ossessivamente di inaugurare anche le briciole e poi l’invisibile per mostrare a se stesso di saper fare.

E in questi bozzetti c’è molto di più di una favola. C’è il ritratto esilarante e impietoso di un uomo per tutti, di una classe politica intera, sfarinata nei parossismi dei suoi giochi, per cui la gente comune, appena dopo le elezioni, «entra tutta in un treno per dirigersi compattamente verso una terra distante. Questo popolo tornerà soltanto, con lo stesso treno, nelle settimane che precedono l’elezione successiva».

Il tour di Lor signori prosegue con Walser, impegnato a rintanarsi in una casa lontana, nella geometria perfetta per sfuggire a chiunque e costretto purtroppo all’invasione dell’altro perché quell’eremo impeccabile si rivela un giardino di crepe. E pare quasi che il suo sistema goda a scomporsi. Così ogni tegola divelta, ogni muro scuoiato infligge una spallata alla sua solitudine, bucandola come un polmone. Walser si riempie di operai, si ritrova immerso in una giungla di lavori in corso, intento comunque a mantenere contegno e cortesia con gli ospiti imposti e a sperare ancora che la prossima visita sia l’unica voluta. Quella più irraggiungibile.

E infine è il turno di Valéry, che diventa alto solo dentro di sé, perché fuori i salti e le sedie sono tamponi troppo brevi per ovviare al suo problema. Valéry e i suoi avvitamenti di logica, i voli carpiati dei suoi teoremi, per cui un animale inscatolato preserva dal rischio di affezionarsi; Valéry che schiva la pioggia come si fa coi proiettili e disegna le sue ragioni dentro schizzi esemplari, quintessenza dei suoi virtuosismi.

E sembra quasi di avvistarlo, quel piccolo uomo magrittiano, con la bombetta incastrata sul cranio e colate di caffè per benedire i suoi pensieri.

Il progetto è ancora in fieri, il quartiere deve ancora popolarsi, come mostra la piantina di apertura.

Ci sono anche Brecht, Melville, Proust, Pessoa, Pirandello, Joyce, Musil e una carovana di altri autori in attesa di ottenere il domicilio. Ma non è un ghetto eccellente. È un vivaio di speranze. Perché vederli muoversi in quello stesso spazio e supporre di incontrarli superato il semaforo, con le scarpe spaiate o un cane cieco al guinzaglio, immaginarli camuffati nella fila alla posta, sentirli vicini sul tram al posto dei passeggeri che sbuffano o imbrattano l’aria di inutilità, può davvero innaffiare il cuore.

Non è certo il primo tentativo di scritturare nomi egregi come protagonisti più o meno diretti di un esperimento narrativo. Basta ricordare Irvin Yalom e i suoi Le lacrime di Nietzsche, La cura Schopenhauer o Il problema Spinoza, oppure Thomas Bernhard che schiera in campo Wittgenstein e Montaigne nel suo Goethe muore. E Tavares non solo non si sottrae alla sfida, ma la condisce di genio e vitalità creativa. Ironico e appuntito, con una scrittura puntuale, brillante, radiografica, a cui bastano pochi tratti a immortalare la sostanza. Come le illustrazioni minimaliste di Rachel Caiano che contrappuntano le pagine.

Saramago ha sostenuto che nei confronti di uno scrittore del genere si ha «quasi voglia di picchiarlo».

Per chi come me non ha impulsi violenti, il solo istinto verso questo libro è di chiedergli asilo politico.

(Gonçalo Tavares, Lor signori, trad. di Marika Marianello, nottetempo, 2014, pp. 261, euro 16,50)

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