“Guarigione”
di Cristiano De Majo

di / 12 gennaio 2015

I motivi per scrivere non mancano mai. Anche a chi dovrebbe ignorarli e lasciarsi tramortire da altre sanguigne priorità, come cuocere il fimo o sintonizzare il decoder. C’è sempre, o quasi, una ragione che prude sotto le unghie, ma essenzialmente l’intera sbottonata gamma di moventi può essere inglobata da due poli: scrivere per fare sfoggio di sé oppure scrivere per mettersi a nudo. Nella maggior parte delle occasioni, i due termini amoreggiano al punto da non distinguersi un gran che mentre altre volte la propensione è più smaccata. In un caso estremo l’autore compiaciuto spolvera per gli altri il suo mondo più riuscito, l’argenteria di mezzi nella credenza buona e tutta l’opera si trasforma in una variazione guizzante sul tema «come mostrarsi acrobatici anche negli starnuti». Nell’altro invece, chi scrive s’inchioda, come fa l’entomologo con le sue creature, perché è l’emorragia ad autenticare il pezzo. Nel libro in questione i dubbi sono pochi.

Cristiano De Majo non s’imbelletta per le feste. Con Guarigione (Ponte alle Grazie, 2014) ci propone una materia che è difficile eludere: se stesso.

E non in quanto pantocratore del suo universo letterario, ma come “semplice” oggetto del suo scrivere.

De Majo è il suo racconto. Trentotto anni, napoletano, redattore e critico per riviste e quotidiani, l’autore si spoglia partendo dalla sua doppia paternità. Simultanea e sconvolgente. Un matrimonio in cui irrompono due pianti. Due gemelli di cui uno è più fragile, con addosso l’ombra bisunta di una malattia genetica. Epidermolisi bollosa. Suo figlio si sfalda con un graffio, perché ha la pelle di farfalla.

Resta solo un’impotenza allagante e la voglia serrata di non lasciare che prevalga l’angoscia, di preservare per lui la tranquillità. Da qui inizia a marciare la storia, prende forma il senso della sua relazione, l’insana essenziale avventura di amare. Il fidanzamento con Laura, i viaggi annodati per costruire e accorciare distanze, il moto verso Roma e poi il ritorno a Napoli, il tumore che squassa la coppia. E poi ancora più indietro, la percezione infantile di un destino eccellente, la ritrosia adolescente verso un mestiere qualunque e molto sicuro. Cristiano da bambino si sente speciale e da ragazzo recalcitra all’idea del posticino comodo e ben pagato. Vuole vivere scrivendo. Vuole affermarsi facendo ciò che gli piace, non riesce a pensarsi impacchettato dentro un contratto, con le vacanze d’agosto prenotate a Natale.

Ma rispondere di altre due vite spariglia le carte e cambia trucco alle proprie intenzioni. Anche perché per i più che trentenni, la normalità dei propri padri (pensione, contributi, tempo indeterminato, casa di proprietà) diventa solo un lessico nostalgico se non quasi allergenico. E quindi il tempo pugnala di domande tetaniche.

Cosa sarebbe stato scegliendo di somigliare meno a se stessi? A cosa è servito in quel momento rimanersi fedeli se poi comunque il pensiero si è dirottato altrove? Quand’è che ci si tradisce?

Forse è una condizione perenne, si esce e si entra disattendendo ogni giorno i propri programmi. Per esorcizzarsi.

Così come ci si ammala aspettando di guarire, perché da quell’evento, da quel noi riesumato e spavaldamente salvo sgorghi lo stelo di un altro dolore. Che ci permetta di sperare ancora. Non c’è molto altro al di là di quello scarto.

È inevitabile ritrovarsi chiamati dalla sequela di queste guarigioni, dalle digressioni iniettate di onestà. Quasi magnetica è quella dedicata a Carlo, coetaneo di Cristiano stroncato a ventidue anni in Sudafrica nel pieno centro di un incidente d’auto. Il cuore dei suoi genitori che batte da morto come una campana funebre e quell’esistenza beffarda e strisciante che nonostante tutto continua a grondare, fino a rinfrescare le stanze, a riarredare il silenzio di quel letto spento.

Linguaggio secco il suo, acuto e smaliziato. Una lente da cui non c’è alcuna intenzione di sfuggire: «Ognuno di noi ha uno spazio-tempo tutto per sé, ignoto agli altri, alle persone che ci amano e ci conoscono così bene. È il terreno del libero arbitrio assoluto e del segreto, il luogo dove edificare doppie e triple vite, l’inebriante e allo stesso tempo orribile campo delle possibilità» .

Un luogo a cui la scrittura offrirà sempre asilo.

Raccontarsi non stanca. Lo confermano alcuni casi di successo, come Diario d’inverno di Paul Auster o il torrenziale La mia battaglia di Karl Knausgaard. Un po’ più e un po’ oltre l’autobiografia, Guarigioneci restituisce il valore dei nostri limiti, il senso d’umanità densa e sempre messa alla prova.

Ernest Hemingway sosteneva che «i bei libri si distinguono perché sono più veri di quanto sarebbero se fossero storie vere». Senza inventarsi nulla, De Majo ha scritto un libro non facile. Semplicemente bello del suo essere vero.

(Cristiano De Majo, Guarigione, Ponte alle Grazie, 2014, pp. 252, euro 16,50)

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