“La morte del padre”
di Karl Ove Knausgård

Il primo volume di una torrenziale autobiografia

di / 3 marzo 2015

Ammettiamolo, il titolo è furbesco. Di quelli che sanno che irritare è solo un altro modo per attrarre. In norvegese Min Kamp. Ma non ci vuole molto a spolverare un cugino tedesco d’inquieta assonanza. Per non parlare del piombo che gronda dall’autore. Se non altro per chiunque il confronto è salvifico. Competitivo uscirne lesionati o rastrellare più disprezzo.

E Karl Ove Knausgård, per fortuna propria e di questo emisfero, non ha molto in comune con Hitler. Entrambi con il loro testo hanno mirato alla «costruzione di un’identità», peccato che il secondo sia riuscito con più determinazione a polverizzarne milioni. Ma stavolta tra gli scopi non campeggiano invasioni della Polonia o incenerimenti di categorie sgradite.

La lotta di Knausgård è ingaggiata con se stesso, con il sogno febbrile di essere scrittore. E per carpirlo mentre sgambetta in aria, era convinto servisse un progetto maestoso. Vicende ciclopiche, una trama d’incastri ben lubrificati, un archibugio d’impasti e personaggi scolpiti. Amleto, Moby Dick o I Fratelli Karamazov, tanto per intenderci.

E invece, per sua stessa confessione, non gli restavano in mano che briciole. Costellazioni di briciole. Miliardi di schegge incagliate tra le nocche. Molliche fossili, pulviscoli di fatti raggrumati sotto il palmo a comporre quello che comunemente chiameremo “vita”. Come farebbero anche Shakespeare, Melville o Dostoevskij.

In serbo per lui c’era un’altra missione. Raccontarsi. E non attraverso altre bocche, altri tempi e indumenti di altri nomi. Semplicemente traslando su carta tutto quello che ha esperito.

E di mastodontico almeno è fuoriuscito il volume. Tremilaseicento pagine per aver ragione di se stesso e rovesciare senza freni il suo vissuto. In Norvegia è un autentico fenomeno letterario.

In Italia dopo un primo tentativo con Ponte alle Grazie, Feltrinelli acquista l’intera opera di cui nel 2014 pubblica il primo libro intitolato La morte del padre. Perché è lui la pianta carnivora di questo tratto di strada. Knausgård svuota la gola della sua infanzia. Lui e suo fratello sono agghiacciati dai suoi passi; quando vortica intorno al loro perimetro, il clima si raggela più che in giardino. La colazione è quasi un rito monastico. Lui non sopporta i rumori, lui dalla stanza inonda di fumo la cucina mentre loro inghiottono pane e alici più in fretta possibile. Lui è una lastra di silenzio e solo la madre stabilizza la pressione. È ispido anche il suo respiro e Yngve decide di partire, perché sa che la distanza è il solo modo di riaversi.

Karl Ove cresce sempre in debito, dentro casa si sente piccolo e schernito e fuori non può fare altro che restituire il colpo, prostrando chiunque capiti a tiro. È tutto riversato in queste pagine, senza tagli né censure: l’adolescenza alcolica per ritagliarsi un po’ di pace, le primordiali relazioni, i traslochi, gli studi, i matrimoni, i figli e soprattutto, il decesso paterno, anche se Karl Ove, in travaglio edipico avanzato, dovrà ucciderlo ogni giorno, prima e dopo il suo ultimo afflato.

In questo primo episodio, il padre è ovunque, affolla anche le righe in cui non compare. È sempre in agguato, nel tremore confluito in arroganza, nell’incapacità di farsi commuovere da un figlio, in quel sentirsi pietra inviolata o torta di tufo. È la parabola di un uomo che ha infangato ogni cosa, trascinando in rovina la sua anziana madre, sfiancata di polvere e macchie di urina, affossando le poche occasioni di restare a galla. E per Karl Ove sbarazzarsene è quasi impossibile. Knausgård ha vomitato ogni dettaglio, dissotterrato angoli scomodi e la sua famiglia non gli è stata certo grata. Lo zio ha chiesto che il suo nome fosse rimosso, i parenti del padre hanno fucilato ogni legame ed entrambe le sue mogli non sono troppo gioiose del quadro risultante. Ma lui doveva procedere. Anche questo fa parte della lotta. Le vittime sono coriandoli disseminati sul cammino.

Enormità autobiografica unica nella sua vastità, pur potendo citare precedenti nobili e riusciti, come quelli di Gregory David Roberts nel suo intenso (e sostanzioso) Shantaram o di J.R. Moehringer ne Il bar delle grandi speranze, per non parlare del colosso in tre volumi di Elias Canetti.

Avulso dal concetto di scrematura, Knausgård riesce a scrivere: «Sorrisi. Mi venne in mente la gomma da masticare, la tolsi dalla bocca e la nascosi nella mano mentre cercavo un posto dove buttarla. Non ce n’erano. Strappai un pezzo che trovai sul tavolino, la misi lì, appallottolai il tutto e m’infilai quel minuscolo pacchettino in tasca. Yngve tamburellava con le dita sul bracciolo». Dimostrando quindi che tutto può diventare materia letteraria. E sebbene qualche intervento dimagrante avrebbe anche potuto essere apportato senza compromettere intenzione ed efficacia, l’attenzione resta incollata, resta lì, in quella piccola vita che non sa andare oltre se stessa. Ed è per questo forse che piace così tanto.

D’altronde, abbiamo più di tremila altre pagine per poterci ricredere.

(Karl Ove Knausgård, La morte del padre, trad. di Margherita Podestà Heir, Feltrinelli, 2014, pp. 512, euro 20)

  • condividi:

LA CRITICA

Primo episodio di un’autobiografia fluviale in cui nulla viene omesso. Per constatare che anche la banalità può essere avvincente.

VOTO

8/10

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio