“La terra bianca”
di Giulio Milani

Marmo, chimica e altri disastri

di / 25 maggio 2016

Mi balena in mente un quadro, come un’epifania, intercettato anni fa nel vivaio del d’Orsay, perché quelle opere respirano e non venitemi a dire che non assorbono luce e non emettono ossigeno. Sono creature folte e sempre assetate. Le spigolatrici di Jean-François Millet incastra tre donne su un lenzuolo di terra. Sono chinate, sono ingobbite, sono stanche e senza volto. La fatica rivendica il possesso feudale di quelle facce. Ma malgrado le loro schiene lontane da ogni verticale, malgrado tutte le ore inarcate e incallite, quelle lavoratrici sanno che il suolo non sputa. Che dal ventre di semi e raccolte dipende la loro vita. E anche quella che non conoscono. Non esiste(va) legame più forte. Perché il tempo presente fa pensare all’imperfetto.

Il libro di Giulio Milani La terra bianca (Laterza, 2015) è l’ennesimo emblema della frattura, l’ulteriore dolente puntata di una serie d’inchieste sullo stupro più o meno inconsapevole subito dal nostro Paese.

Siamo avvezzi ai fuochi campani, allo sfregio dell’agro aversano, all’idea che i rifiuti si sommergano, oppure che s-fumino altissimi a ingozzare le nuvole. Tutto già digerito. Il potere dei media gonfia il clamore e poi lo normalizza. Ci anestetizza. Ma la tragedia ambientale cambia dialetto. E in questo caso parla toscano. Nell’enclave assoluta del marmo.

«Un’onda pietrificata, una sterminata scogliera di fossili» nella zona di confine tra la bassa Liguria e l’Emilia, che comprende la doppia provincia di Massa Carrara, le Alpi Apuane e una costola di Mar Tirreno.

Giulio Milani, scrittore e direttore responsabile della casa editrice Transeuropa, ha sempre abitato qui, il bacino delle cave, un poligono colonizzato dalle industrie fin dagli anni Cinquanta. «Ex Farmoplant-Montedison. Ex Rumianca-Enichem. Ex Bario-Solvay. Ex Italiana Coke».

Una sequela di sposalizi chimici e divorzi malconci che hanno divelto, macellato, svuotato un territorio rendendolo una tra le aree più inquinate d’Italia «anche per le polveri sottili prodotte dal traffico incessante dei mezzi pesanti, tra i quali i sempre più numerosi e caratteristici camion coi pianali per il trasporto di blocchi di marmo grandi alle volte come interi container e, in misura molto maggiore, i ribaltabili carichi fino al colmo di scaglie detritiche per i mille usi non ornamentali della pietra». «Fumi di latte», un impasto pestifero sbriciolato nell’aria, che la gente del luogo ingurgita ogni giorno, pensando non sia immaginabile un ipotetico altrimenti. Perché le cave sono lavoro e senza lavoro si muore. Ma a quanto pare anche a causa del lavoro.

L’inchiesta di Milani parte da un episodio miliare: Il 17 luglio del 1988 il serbatoio di un pesticida (il Rogor), occultato malamente tra i Formulati liquidi per eludere la legge, scoppia come un attentato nello stabilimento Farmoplant- Montedison, partorendo una nube tossica diluita per 2000 kmq, soprattutto su Marina di Massa e Marina di Carrara. Nessun morto e chissà quante vittime. Perché il disastro più maligno è quello che s’incassa tardi, che s’incista nelle crepe, acquattato nelle vie respiratorie, nell’alcova dei polmoni, tra reni e vescica.

Dopo proteste di ogni tipo la fabbrica fu chiusa, ma non la scia di condanne pronta a chiedere asilo dentro troppi cittadini. Il motivo? Le pratiche più diffuse da molte di quelle aziende riguardavano lo smaltimento “sportivo” dei rifiuti. Ovviamente tossico-nocivi, tramite la termodistruzione per opera dell’inceneritore Lurgi nel caso della Farmoplant, attraverso interramenti silenziosi e consenzienti in tutti gli altri. Abbuffare le zolle di veleni e poi coprirle di ulivi e ammalarsi d’olio e non capirlo mai per tempo.

Ma il libro di Milani procede oltre, traccia una geometria spazio-temporale molto complessa, diagonali d’analisi che scavalcano il singolo episodio e pennellano il profilo di una provincia abusata attraverso la Storia, in prima istanza dalla fatica delle cave, dove i dispositivi di protezione sono stati per decenni fantasmi senza guanti. Operai falciati come insetti per un cumulo distratto, schiacciati da un peso sfuggito al controllo. Poi il vespaio furioso dell’industria estrattiva e dei suoi sversamenti. E la smania noncurante di usare la terra come un tappeto. Come un sepolcro ben ammobiliato.

Milani ci racconta per salti, di uomini capaci di opporsi al male, dello stormo partigiano della Resistenza Apuana, negli echi di guerra nelle steppe di Russia (suo argomento di laurea). «Si erano battuti per tre giorni di seguito. Per tre giorni e due notti si erano sacrificati, a turno, ai piedi di una quota da riconquistare». Poi di altri uomini anni in anni più vicini, intenti a riagguantare la pulizia dei fatti, a denunciare gli illeciti, a spingere forze, a non tacere. Come Marcello Palagi, principale esponente del movimento per la chiusura della Farmoplant; come Alberto Grossi, regista del documentario Aut Out.«Se si altera la morfologia di un luogo non ne vengono modificati solo i caratteri distintivi, ma anche quelli invisibili, come l’alimentazione degli acquiferi e il clima. Sono a rischio le sorgenti, si perdono i fiori, e forse anche la poesia». E lo scempio continua.

Chi pagherà per ogni verso bruciato, per lo sguardo rappreso in un cucchiaio d’orrore? Per la strage travestita da capitolo ordinario, senza nessun dittatore da offendere? Per le diagnosi neoplastiche di cui smettiamo di stupirci? Sempre noi, che se restiamo fermi avremo solo terre sane dipinte in un museo.

 

(Giulio Milani, La terra bianca, Laterza, 2015, pp. 220, euro 19)
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LA CRITICA

Giulio Milani ci offre un esame profondo e inquietante del suo territorio apuano, sfregiato da anni di crimine ambientale. Contributo prezioso e sapientemente scritto per cercare di capire e non giurarsi inconsapevoli.

VOTO

8,5/10

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