Ponte33: CAPIRE L’IRAN AL DI LA’ DEL CHADOR

Ottime traduzioni, storie accattivanti, dimensioni da incontrare

di / 28 settembre 2016

Cosa sappiamo realmente dell’Iran? Che fino al 1935 si chiamava Persia. Che in seguito chiese di reintitolarsi, con l’unico nome tangibile, quello suonato da tutte le sue bocche. “Iran”, appunto, Paese dagli Arii.

Questo riusciamo abilmente a raccogliere, tra pascoli più o meno enciclopedici. Dalle origini dinastiche alla Rivoluzione. E poi l’assalto dell’Iraq e il risveglio islamico. Il resto è una distesa impropria. Di chilometri, di confini per noi ancora nebulosi. Per il resto l’Iran è una terra strangolata da Stati impronunciabili e da tutti i terrori riecheggiati da altre fonti.

Ma cosa vuol dire vivere in Iran, sentirsi schiacciati da un passato di pietra e un futuro clandestino? Raccontare l’Iran (ma anche l’Afghanistan e il Tagikistan) a quei Paesi occidentali che lo temono o lo annebbiano, soprattutto oggi, mescolandolo al barattolo esplosivo definito “Medioriente”.

Creare luce, ritmo e senso attraverso la letteratura. Questa la mission dichiarata da Ponte33, Associazione culturale e casa editrice fiorentina, fondata nel 2008 da Felicetta Ferraro e Bianca Maria Filippini, di ritorno da un’esperienza a Tehran.

Un’area di transito per bagagli d’arte, per voci di scrittori, grafici e poeti con la forza e il desiderio di valicare il guado. Passare il fiume e poi espatriare. Verso altri occhi, verso altre lingue. Proporre «una sorta di sguardo dall’interno», che strappi dal mondo di sempre e ci risucchi altrove. Che escluda e re-includa, come una valvola sanguigna, per regolare i flussi del nostro cercare parole, di quel continuo provare a capire.

Impresa ostinata, quella di sbirciare al di là del velo (come fosse soltanto un dilemma di stoffa), di diffondere testi che connettano tra loro latitudini in conflitto o quanto meno indifferenti, relegate nelle proprie imbottite zone di comfort.

Siamo felici di riaffacciarci quest’anno Dietro le quarte, cominciando da una realtà piccola e preziosa, ispirata al ponte di Isfahan, alle sue 33 arcate sotto cui di snodano e s’intrecciano generazioni di umori e discorsi, dove i libri sono odori e sono versi.

È un catalogo esile e autodistribuito, con pochi libri ben calibrati, curati da una grafica evocativa ed efficace. Ottime traduzioni, storie accattivanti, dimensioni da incontrare.

Tra i soli otto titoli a disposizione, ne segnaliamo uno in particolare:

Ossa di maiale e mani di lebbroso, di Mostafa Mastur. Caleidoscopica ripresa di un condominio di Tehran, un alveare di destini contrapposti, antinomie di sfarzi e miserie in cui ogni casa impacchetta una vicenda. In cui l‘unica a infiltrarsi, uguale per tutti come striscia di sole, è l’incertezza. L’incapacità dolente di sapere chi essere e che fare.

Ma d’altronde, per questo si legge e per questo si scrive. Mettere a soqquadro, disordinare gli ordini, soprattutto quelli imperativi. Grattare pregiudizi, sfatare le convinzioni di coloro che credono solo a quello che non vogliono sentire. Soprattutto quando si tratta di se stessi.

Pubblicare distanze, dissonanze, contatti diretti con le proprie inconsapevolezze. Ponte33 rappresenta questa sfida, la indossa con naturalezza.

Ed è proprio per questo che ci aspettiamo ancora parecchio da questa realtà editoriale senza novità in pentola da lungo periodo, perché vogliamo vedere al più presto campeggiare altri titoli, altri autori, altre declinazioni del vivere persiano.

Contraddittorie e autentiche come quelle finora incrociate. Tutt’altro che facile, con le risorse economiche a disposizione. Tutt’altro che facile. Come ciò di cui sempre c’è bisogno.

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