“Arrival” di Denis Villeneuve
Fantascienza, linguaggio e maternità
di Francesco Vannutelli / 20 gennaio 2017
Nel giro di pochi anni il canadese Denis Villeneuve è diventato uno dei registi da cui aspettarsi le cose più interessanti, a Hollywood. Dopo i film in patria (La donna che canta su tutti), il passaggio del confine lo ha reso subito un autore in grado di coniugare gli aspetti più popolari del cinema con spunti di riflessione sulla natura umana. Arrival è passato nei mesi scorsi per alcuni dei festival più importanti al mondo – inclusa la mostra di Venezia – raccogliendo consensi e in alcuni casi premi. È una sorta di prova generale, per Villeneuve, con la fantascienza, in attesa di vedere il suo attesissimo Blade Runner nei prossimi mesi.
Arrival inizia quasi come Independence Day, con dodici astronavi dalla forma strana – sembrano un po’ delle vele, un po’ delle lenti a contatto giganti – che appaiono in altrettanti punti del pianeta. Non mandano nessun segnale, semplicemente stanno lì. La linguista Louise Banks viene chiamata dall’esercito degli Stati Uniti per cercare di stabilire un contatto con gli alieni e capire perché sono arrivati sulla Terra.
Le somiglianze con Independence Day si esauriscono nell’apparizione delle navi aliene. Non siamo di fronte a un blockbuster d’azione. È fantascienza filosofica, quella di Arrival, quel tipo di fantascienza riportata in primo piano da Interstellar di Christopher Nolan. C’è una tradizione gloriosa, alle spalle, che va da 2001: Odissea nello spazio a Incontri ravvicinati del terzo tipo passando per Solaris di Tarkovskij. Il centro tematico di questi film, anche quando si spingono ai confini dello spazio e del tempo, anche quando partono dall’idea del contatto con civiltà aliene, è l’uomo.
Villeneuve lo fa capire con la sequenza iniziale. La Louise Banks di Amy Adams è una donna distrutta dal dolore per la perdita della figlia. Con un montaggio in stile Up ma girato alla Terrence Malick vediamo in pochi minuti tutti i momenti della loro vita insieme, dalla nascita alla malattia e alla scomparsa prematura. Nel frattempo la voce fuori campo di Banks si rivolge alla figlia e dice che quella che credeva essere la fine invece sarebbe stato l’inizio.
L’esperienza di dolore della protagonista, quindi, è il motore parallelo che fa muovere Arrival insieme all’arrivo degli alieni. È attraverso Banks che tutto succede. Il film è tratto da un romanzo breve di Ted Chang, Storia della tua vita, pubblicato ora in Italia da Frassinelli nella raccolta Storie della tua vita. Il titolo mostra come la centralità sia spostata sul rapporto tra Banks e la figlia, più che sull’arrivo degli alieni.
Tramite l’incontro e lo studio della lingua degli alieni, la dottoressa Banks riesce a definire il suo passato e il suo futuro, trovando uno spazio e un tempo in cui sviluppare la sua nuova vita.
È interessante notare come Arrival condivida con Interstellar alcuni tratti caratteristici che lo avvicinano a Contact, il film di Robert Zemeckis tratto dal romanzo omonimo di Carl Sagan. Nel film del 1997 entrava in contatto con gli alieni che le si manifestavano nella forma del padre morto quando lei era una bambina. In Interstellar torna forte il tema della paternità, mentre Arrival sposta tutto sulla perdita del figlio per una madre, come già Gravity di Alfonso Cuarón. È nel rapporto che si definisce la natura umana.
Denis Villeneuve e lo sceneggiatore Eric Heissener (una sorpresa, considerando che in carriera ha scritto cose come il reboot di Nightmare o Final Destination 5 sono riusciti a coniugare la dimensione esistenziale con l’approccio scientifico. La ricerca sul linguaggio, che passa attraverso un lento lavoro di studio delle forme espressive, è uno spunto molto interessante per inquadrare la fantascienza di contatto, come la musica in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Il linguaggio è la chiave per evitare il conflitto, lo strumento tramite cui capire chi e cosa è minaccia e cosa non lo è. È proprio nei momenti dell’incontro con le creature aliene che Arrival dà il suo contributo maggiore nel rinnovare la fantascienza. Nella rappresentazione degli alieni si somma psicanalisi e fantasia in un ibrido tra calamari, cetacei, elefanti e ragni, mostrati sempre attraverso un velo di nebbia bianca come fossero sogni. Il loro linguaggio si basa su una scrittura fatta di segni circolari che sembrano evoluzioni delle macchie di Rorschach. Tutto sembra rimandare al subconscio, alle dimensioni più profonde della mente umana.
Il cinema statunitense di Villeneuve fino a questo momento è sempre stato grande cinema a cui però è mancato qualcosa per diventare grandissimo. Il guizzo finale, una certa compattezza, la capacità di arginare le varie suggestioni e incanalarle in un’unica direzione. Anche Arrival avrebbe tutto il potenziale del film indimenticabile, ma procedendo verso la seconda parte si iniziano a intravedere i segni del cedimento. Con un evento dal potenziale traumatico – e decisamente fuori registro – piazzato lì per portare avanti una retorica classica della fantascienza, il film di Villeneuve finisce per accelerare verso una conclusione che si accende in minima parte di azione e comprime in pochi minuti il complesso meccanismo intellettuale su cui si regge tutta la storia. È il cambio di ritmo, questa volta, a non permettere a Denis Villeneuve di arrivare accanto ai modelli altissimi a cui si rifà.
(Arrival, di Denis Villeneuve, 2016, fantascienza, 116’)
LA CRITICA
Denis Villeneuve è uno dei registi più interessanti in circolazione ma continua a mancargli sempre qualcosa. Con Arrival esplora la fantascienza filosofica ma resta qualche gradino più in basso delle vette a cui sembra puntare.
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